L’AQUILA – Sarà inaugurata il 4 ottobre prossimo la mostra “Foglio 68 L’Aquila”, a cura di Antonello Frongia, con la presentazione dell’omonimo volume che raccoglie gli esiti di una ricerca fotografica sugli spazi periurbani del quadrante occidentale dell’Aquila condotta nell’arco di tre anni (dal 2021 al 2023) da Andrea Coletti, Giampiero Duronio e Sergio Maritato.
“Foglio 68” resterà aperta fino al 10 ottobre presso il Palazzetto dei Nobili (P.zza Santa Margherita) a L’Aquila ed espone le fotografie raccolte nell’omonimo volume che da forma fisica all’ esigenza di indagare i caratteri identitari di un’ampia porzione di territorio contemporaneo sviluppatasi negli ultimi cinquant’anni. I tre fotografi, con un attenzione, un uso della luce e delle tecniche fotografiche diverse tra loro, hanno incrociato sguardi e conoscenze, esperienze individuali e metodi di lavoro per approdare alla sintesi di 108 fotografie, selezionate tra le centinaia che costituiscono un eccezionale archivio di osservazioni su un caso di studio che va ben oltre lo specifico geografico della situazione aquilana.
Alla inaugurazione – presentazione del volume “Foglio 68 L’Aquila” interverranno, lo stesso curatore Antonello Frongia, Sara Liberatore, Anna Riciputo, Guendalina Salimeni e Rosalia Vittorini.
La mostra, non distinta dal volume, dunque si propone come una lettura storico – critica del territorio aquilano, la periferia in particolare, nel suo divenire urbano che ha attraversato il fervore costruttivo degli ultimi decenni del secolo scorso e poi il terremoto del 6 aprile 2009. “Il cammino intrecciato dei tre fotografi – scrive Antonello Frongia – offre infatti continui spunti di riflessione, che riguardano sia quella che si potrebbe definire una “poetica” dello spazio urbanizzato contemporaneo, sia una lettura più strutturata delle sue vicende più recenti. In questo lavoro, è l’accostamento delle immagini, realizzate in luoghi o in tempi diversi a operare come un vero e proprio dispositivo dialettico, che dall’ovvietà del paesaggio può far scaturire inedite interrogazioni. Così edifici di dimensioni e funzioni diverse, ma esteticamente simili, invitano a chiedersi quali criteri di gusto e di riconoscibilità governano la manutenzione e il riuso di strutture rurali in una società ormai definitivamente urbanizzata e borghese; analogamente, piante e alberature emergono come figure spettrali di un’archeologia botanica, elementi di un “terzo paesaggio” che la densificazione edilizia non ha ancora completamente addomesticato barriere fisiche e pratiche di confinamento si ripetono interrompendo la continuità orografica del suolo e frammentando il nostro rapporto con l’estensione del paesaggio”.
Il progetto si inscrive in una lunga tradizione di esplorazioni a scala urbana e territoriale che a partire almeno dagli anni Settanta ha caratterizzato un filone della fotografia internazionale nello “stile documentario”. Concentrandosi sullo stato dei luoghi e chiamando in causa solo occasionalmente la presenza umana, queste fotografie ci invitano a interrogare le forme e gli spazi dell’abitare contemporaneo cercando di far emergere situazioni, rapporti, ricorrenze, tipologie, strutture. A monte di questo approccio si può richiamare un precedente ormai storico come The New West: Photographs Along the Colorado Front Range di Robert Adams (1974), che al riconoscimento disincantato della banalità del suburbio statunitense – l’urbanizzazione incontrollata delle campagne, il consumo di suolo, il prevalere di un’edilizia di bassa qualità, la prevalenza di spazi pubblici del consumo rispetto a quelli della socialità – accompagna una sospensione del giudizio volta a riaprire uno spazio di “ascolto” per il paesaggio del tardo capitalismo, evitando anche le retoriche della fotografia di denuncia più militante.
“Anche le fotografie di Coletti, Duronio e Maritato, come quelle di Adams – conclude Frongia – si presentano come trascrizioni di sguardi comuni, analoghi a quelli che un abitante può concedersi passeggiando casualmente nei propri luoghi nel corso dei giorni e delle stagioni. Si tratta, in questo senso, di immagini della “qualsiasità” (secondo una definizione ormai celebre di Cesare Zavattini), che non ambiscono a monumentalizzare “quadri” o eventi eccezionali, né a proporre tra le righe reconditi messaggi o valori simbolici. Ciò che sostiene questi sguardi è un atto di concentrazione visiva messo in atto dal fotografo e riproposto allo spettatore, al quale si offre la possibilità di tornare a fare “mente locale” sugli oggetti, le forme, i materiali, le tracce che la storia civile degli ultimi decenni (della quale evidentemente siamo compartecipi) ha depositato inavvertitamente attorno a noi”.