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Previdenza: Paone (Inps Abruzzo), cambiano termini sostanza no

Pubblicato da Redazione
lunedì, 02 Febbraio 2015 - 09:48
in Cronaca

L’AQUILA: – Per quanto riguarda la previdenza, cambiano i termini ma la sostanza rimane uguale. E’ questo, in sintesi, il pensiero di Enrico Paone, presidente del Comitato regionale dell’Inps Abruzzo. “Previdenza, salario differito, riforme, tagli, risparmio previdenziale, fisco, detrazioni fiscali, costo del lavoro, pensioni, Tfr, previdenza complementare, assicurazione integrativa, jobs act…Non dobbiamo meravigliarci – osserva Paone nella sua riflessione affidata a una nota – se col tempo le parole possono assumere un significato diverso da quello originale. Forse gli inglesismi della nostra lingua servono proprio a questo. La sostanza, pero’, non cambia. La realta’ e’ sempre quella e con essa bisogna fare i conti, fuori da dispute nominalistiche. La mia generazione, quella fortunata che si e’ affacciata al mondo dopo la seconda guerra mondiale, nell’immaginario del futuro, non mancava mai il riferimento al risparmio previdenziale, insieme alle lotte per il lavoro, il salario dignitoso, la casa, la sanita’, la scuola, i servizi pubblici, i diritti; la giustizia sociale; perche’ era presente a tutti la condizione economica nella quale si versava. Sia ben chiaro, c’erano anche quelli che volevano tutto e subito in busta paga, ma non erano ‘moderni’, venivano – forse giustamente- individuati come corporativi e, soprattutto, non erano in sintonia col processo di crescita e di programmazione economica e sociale, alimentato anche ad arte, per dare sfogo ad un mercato interno che tanti problemi di sviluppo stava risolvendo. Certo le criticita’ non mancavano, ma permaneva la certezza che essi sarebbero stati risolti con il lavoro e da uno sviluppo senza limiti, del quale si era fiduciosi. La previdenza, anzi il ‘risparmio previdenziale’ – prosegue il presidente del Comitato regionale Inps Abruzzo – non era vista come ‘una tassazione impropria’ a carico dei lavoratori e del lavoro, ma era una quota di salario differito, come lo era il trattamento di fine rapporto, che doveva essere versato per avere una qualita’ della vita adeguata, quando si restava disoccupati o non si era piu’ in eta’ da lavoro e per non far ricadere questi costi sulla collettivita’. La consapevolezza su di un eccessivo peso contributivo sul costo del lavoro c’era, ma essa era mitigata dalle fiscalizzazioni degli oneri sociali e da corposi incentivi alle attivita’ produttive”. “Altro discorso era la solidarieta’ tra categorie sociali, cioe’ verso quei lavoratori che non avevano potuto versare una contribuzione adeguata, oppure verso coloro (soprattutto donne), in una societa’ senza diritti, che non avevano i contributi per la pensione, le famose ‘marchette’. L’integrazione al trattamento minimo delle pensioni dovute a questi lavoratori, dei coltivatori diretti prevalentemente, poi piu’ in generale dei lavoratori autonomi – si legge nella nota – era il risultato di questa nascente cultura che guardava, almeno per i piu’ anziani, con parole vecchie, ad un reddito di cittadinanza sociale. Questo stato di cose duro’ a lungo e non e’ che non ci si accorgesse anche delle misure illogiche (es. le baby pensioni, i prepensionamenti o la Cigs per decine di anni) che ‘clientelarmente’ sono state promulgate dai vari governi fino agli anni ’80. La previdenza, pero’, era sempre un risparmio, al punto che si comincio’ a porre il problema di separazione della previdenza dall’assistenza, dalle fiscalizzazioni degli oneri contributivi alle imprese, proprio ad evitare che il risparmio previdenziale assumesse la funzione di fiscalita’ impropria. Nel tempo – osserva Paone – la situazione socio-economica e occupazionale del paese e’ mutata, a causa di tanti motivi tra cui l’innovazione tecnologica, la globalizzazione, il calo delle nascite, l’invecchiamento della popolazione; per cui dagli anni ’90 si sono avviate azioni continue di manutenzione del sistema previdenziale per salvaguardarne l’operativita’. Se, indiscutibilmente, e’ cambiato il contesto di riferimento, non sono cambiati i temi costitutivi di un sistema previdenziale, quali quelli della solidarieta’, della esigibilita’ delle prestazioni, della fiducia in chi versa di poter avere una pensione adeguata ai versamenti effettuati. L’Inps, nello scorso secolo, ma lo e’ ancora, e’ stato il riferimento strumentale dei governi e delle forze sociali per gestire il risparmio e per pagare le prestazioni. E’ stato sempre un fiore all’occhiello della pubblica amministrazione italiana. La sua informatizzazione estrema ha permesso di velocizzare i tempi per l’erogazione delle pensioni, anche di quelle in convenzione con i numerosi paesi del mondo e di determinare un’efficienza strumentale da far invidia, per costi ed efficacia, a molte nazioni europee. Questo e’ stato possibile grazie ad un sistema complesso di ‘governance’ che ha trovato nel tempo la sua forza nella collaborazione vera tra una classe dirigente e impiegatizia (motivata da spirito di appartenenza) e da rappresentanti sociali che, nella consapevolezza di essere gli azionisti principali del sistema, ben indirizzavano e controllavano, attraverso un sistema di programmazione, l’attuazione delle disposizioni di legge che pervenivano ad un Ente da sempre strumentale dello stato”. “Negli ultimi 15 anni, pero’ – prosegue la nota – il sistema di governo dell’Istituto e’ stato sostituito dal commissariamento, presidenza monocratica ed i vari interpreti, Mastrapasqua, Conti, Treu, hanno svolto il ruolo che veniva loro richiesto dai governi che li avevano nominati, con particolare attenzione alla ‘funzione bancomat’ per far fronte alle esigenze finanziarie del Paese in crisi. Oggi, nonostante a partire dagli anni ’90 si siano determinati notevolissimi risparmi al sistema previdenziale ed altrettanti ne verranno, per centinaia di miliardi, dal 2020 in poi, si continua a perseverare nella logica dei tagli che tanti danni sta determinando al concetto di certezza delle prestazioni, col rischio che oggi si convincono i lavoratori che e’ meglio mettersi in tasca il Tfr e domani di camuffare il concetto di risparmio previdenziale confondendolo con una tassazione troppo elevata ed impropria sul lavoro, di cui sarebbe opportuno fare a meno, anche per abbassare il costo del lavoro e far ripartire l’economia. Magari alimentando ad arte una contrapposizione tra vecchi e giovani, occupati e disoccupati, uomini e donne, italiani ed immigrati, per minare la certezza di riscuotere una prestazione, per coloro che oggi versano ad un sistema a ripartizione che nell’equilibrio tra entrate ed uscite, garantisce il reddito di 16 milioni di persone. Questo – dice il presidente del Comitato Inps – e’ un rischio che va evitato, spiegando ai giovani che pensare al futuro significa anche governare il sistema previdenziale, magari flessibilizzandolo in uscita, e che la quantita’ di lavoratori attivi (italiani e immigrati), il lavoro stabile, quello duraturo e di qualita’, e’ la soluzione al finanziamento del sistema stesso. Ultima questione, il sistema previdenziale pubblico deve sempre piu’ confrontarsi con quello privato, perche’ se passasse la logica che il privato alla fine del periodo di accumulo ti restituisce il capitale piu’ gli interessi, mentre il pubblico non lo fa e ti potrebbe cambiare il contratto anche dopo aver riscosso una pensione sufficiente per vivere, allora non avremmo fatto un buon lavoro per le nuove generazioni. Infine – conclude nella sua riflessione Enrico Paone – bisogna ribadire con forza che una cosa e’ la solidarieta’, a cui non bisogna mai rinunciare, ed altro e’ l’assistenza, che deve essere posta a carico della fiscalita’ generale”.

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