L’AQUILA: – 7 aprile 2009. Due notti trascorse dentro i sacchi a pelo e in macchina, trasformata per l’occasione in un autoscontro, sballottata com’è dalle scosse. Unica certezza: avere tre ottimi motivi da proteggere (i nostri figli) e trovare rifugio in una località sulla costa abruzzese: al momento l’esodo è l’unica soluzione per noi accettabile. Seppur preoccupati ed impauriti dalla tragedia delle ore precedenti, l’idea è comunque di rimanere lontano da casa qualche giorno, il tempo strettamente necessario affinché tutto possa sistemarsi (come, non sappiamo…non sappiamo più nulla in realtà). Invece per un mese e mezzo abbiamo condotto vite parallele: parte della mia famiglia a L’Aquila, io e i miei figli “profughi del terremoto” e lontani dagli affetti . Quando si è soli a dover decidere per se’ e per tre innocenti, quando si è soli a dover creare una nuova vita, con nuovi orari e nuove abitudini, in una casa che non è la tua casa, si è assaliti continuamente dall’angoscia per il presente e dall’incertezza del futuro. Il porsi tante domande a cui non sai dare risposta e il vivere senza stimoli, con gesti meccanici (da automa) aspettando il ritorno, alimentano ogni giorno di più la nostalgia e l’ansia per chi è distante forzatamente da te. Nonostante in molti raccontino di situazioni poco rassicuranti in città, nonostante L’Aquila non ci sia più, in realtà tu vorresti stare proprio lì, dove sei nata e vissuta; vorresti tornare a lavoro, vorresti tornare al tuo mondo con tutte le solite banalità quotidiane. Da esule, osservi la vita degli altri, di quelli che sono cittadini nella loro città: ti scorre davanti agli occhi e non riesci a non provare nei loro confronti quel sentimento negativo che è l’invidia. Piango per un’emotività dolorosissima e duratura, di giorno e di notte; sebbene usciti indenni da un cataclisma, nulla mi tranquillizza, neanche la certezza di trovarmi in un luogo sicuro. Tutto è un fardello pesante per me. Col passare dei giorni anche i miei figli cominciano ad avvertire lo stesso disagio: ghettizzati in una classe di soli bambini aquilani e in una scuola pubblica dove li avevo iscritti per permettere loro di proseguire gli studi fino a giugno, non possono né pranzare né giocare con gli altri alunni negli spazi comuni, per decisione (le cui ragioni sono ancora a me sconosciute) dello stesso dirigente scolastico. Non mi sorprendo perciò quando, all’improvviso e all’unisono, mi chiedono di voler tornare a casa, infelici pure loro nonostante l’amicizia e la solidarietà che ci è stata donata da molti. Ogni giorno, ad ogni ora reclamano questa ferma volontà e più li osservo e più ho noto similitudini impressionanti con E.T. e il suo dispositivo ”telefono-casa”. In fondo hanno ragione: L’Aquila continua a tremare ma la nostra abitazione, seppur ferita, è in piedi e riunire finalmente tutta la famiglia non può che incutere forza e alimentare fiducia per un futuro migliore. Rispetto al presente da sfollati, posso tranquillamente dire che tornare a casa è stata la miglior soluzione che si potesse trovare. Quindi, a poche settimane dal sisma, lasciamo la località che ci ha accolto per lunghissimi, interminabili giorni e ci trasferiamo nuovamente a L’Aquila. Per abitudine, amo osservare e crearmi mie personalissime opinioni: l’impressione che ho da subito (come si dice spesso, buona la prima), non è poi tanto diversa da quella che avevo immaginato durante il mio “esilio”. La mia città sgangherata senza il suo centro storico, cumuli di macerie sparsi ovunque, tracce di vita passata e nuove realtà di esistenze precarie: i segni evidenti della tragedia e di una temporaneità che in molti hanno avuto il dispiacere di conoscere solo da “quel” 6 aprile. Nella totale confusione, tra G8 e red carpet per i potenti sbarcati in una sconosciuta località abruzzese, noto l’organizzazione di alcuni miei concittadini soprattutto di coloro che non hanno mai lasciato il territorio, spesso aggregati in community anni 70 stile figli dei fiori. Aquilani che, rimboccandosi le maniche, costruiscono (o cercano di costruire) una nuova vita dalle ceneri di quella passata. Faccio mia la loro filosofia, tornando alle solite, vecchie, care abitudini. Di notte dormiamo tranquilli (esiste la tranquillità in una città sconquassata da un terremoto?) al piano terra del nostro appartamento, in un garage dove per raggiungere il bagno, devi trattenere la pipì e scavalcare in tempo utile tutti e cinque i letti (sistemati ad incastro), compresi gli occupanti lamentosi e ormai svegliati dal sussulto (una nuova scossa???). Decido di tornare al mio lavoro (in questo sono privilegiata, la situazione lavorativa in generale è pessima in città) subito dopo il nostro rientro, convinta di poter dare un mio personalissimo contributo alla ricostruzione della collettività. Durante la mia assenza, per i miei figli ho trovato una sistemazione in una delle tante tendopoli montate per noi sfollati e sinistrati dove, anche se non residenti nel campo, veniamo accolti con uno speciale permesso dagli infaticabili volontari. La vita da “ospiti infiltrati” in queste strutture è sempre in linea coi tempi: quando c’è il rischio di pediculosi o di altra infestazione, non si può entrare e tocca tornarsene a casa, prendere un permesso dal lavoro e ingegnarsi su come trascorrere la giornata, sperando che il giorno successivo possa essere favorevole. Quando poi l’indomani si presenta la stessa situazione, ammetto che in quei momenti si è assaliti da un profondo senso di frustrazione: impotenti perfino di fronte ai pidocchi!!! La nascita delle new-town e il conseguente smantellamento nell’autunno del 2009 delle tendopoli, hanno segnato la fine dell’emergenza post terremoto e l’inizio di nuovi capitoli, spesso poco edificanti e gratificanti. Dopo 5 anni mi guardo indietro: ripenso a chi ho conosciuto, a chi mi ha teso la mano, ripenso alle storie spesso tristi che in tanti mi hanno raccontato. La memoria segue i miei ricordi come scatti fotografici: volti e momenti legati in maniera indissolubile. Non posso che considerarmi fortunata per avere avuto la voglia di tornare e per essere rimasta ferma nella mia decisione: non è stato facile e non lo è nemmeno ora, dopo tutte le vicende giudiziarie che hanno coinvolto la mia città, la ricostruzione e la dignità di molti di noi. Aspetto che una coscienza collettiva illumini questa nuova fase, aspetto che ognuno di noi superi il proprio io e si senta parte integrante di una comunità nuova e pura: aspetto con ansia di vedere la mia casa paterna dov’era prima, aspetto di poter passeggiare tra i vicoletti del centro e avvertire il profumo di cucina delle massaie e non l’odore acre della muffa…
Sonia Castellani