L’AQUILA: – di Luigi Calvisi – La data dell’8 marzo entrò per la prima volta nella storia come Festa della Donna nel 1917: in quel giorno le donne di San Pietroburgo scesero in piazza per chiedere la fine della guerra, dando così vita alla “rivoluzione russa di febbraio”. Questa una delle tesi, altrettanto citata quanto la storia delle operaie rimaste bruciate negli Stati Uniti in uno stabilimento, o ancora l’episodio che riferisce dei giorni della sfilata di donne in Rosenstrasse con la quale riuscirono a far rilasciare i parenti di uomini ebrei arrestati e destinati alla deportazione. Non sappiamo quale spunto nobile abbia dato origine a questo appuntamento che ogni 8 marzo si ripete, in un’atmosfera tra il festoso e il consumistico, come “la Festa della Donna”. Comunque l’appuntamento adesso c’è ed ognuno lo vive come ritiene più opportuno, con punte di cultura, spesso in allegria e anche – ma per fortuna sempre più raramente – con eventi di cattivo gusto. Nella nostra piccola realtà colgo l’occasione – approfittando della vicinanza alla fatidica data – per fare una riflessione sulle nostre donne, in particolare le nostre madri e nonne che hanno vissuto il secolo scorso, periodo in cui la vita si svolgeva in contesto completamente diverso da quello attuale. Chi segue con attenzione i racconti dei nostri vecchi che pubblichiamo, in particolare delle donne, può trovare alcuni spunti che davvero fanno pensare: il ruolo della donna nella famiglia, da sempre fondamentale nella società contadina è sempre rimasto subalterno a quello degli uomini. Pensiamo solo a cosa hanno potuto passare le nostre donne durante la guerra, occupate a crescere in solitudine i figli e combattere la fame, oppure nell’importante impegno – in assenza dei mariti emigrati – di allevare i figli e amministrare i risparmi che il marito riusciva a far arrivare in Italia. E a fronte di tutto questo? Una vita di sacrifici e fatica, per acquisire un minimo di sicurezza economica in un contesto di diffusa povertà. Da bambino, mi impressionava sempre un comportamento che era diffuso: nei giorni di festa, accadeva spesso che i mariti, dopo la processione, si infilassero nella “cantina” (i bar dell’epoca) per bere in allegria e per giocare a carte. Molto spesso questo momento si prolungava eccessivamente, al punto che le mogli venivano ad avvertire i mariti che erano attesi per il pranzo della festa, che era tutto pronto. Ebbene, per una donna entrare nella cantina per una cosa del genere era considerata “vergogna”. La moglie, quindi, per poter richiamare l’attenzione del marito approfittava della presenza di qualche bambino per affidargli, non potendo entrare personalmente, il ruolo di messaggero. “Mi vedi se c’è mio marito? E se c’è, gli dici che lo stiamo tutti aspettando per mangiare?”. In mancanza del capo famiglia, infatti non era possibile iniziare il pranzo. E che dire di quelle donne che, pulito e rassettato la casa, preparavano il pranzo che avrebbero portato con il canestro in testa, a piedi nell’appezzamento di terreno dove gli uomini stavano lavorando e continuando poi a lavorare con loro. Oggi questi flash sembra che non ci riguardino, possono sembrare lontani nel tempo, eppure sono lì nella memoria recente, accaduti proprio ieri. E tra queste modeste donne, talvolta vedove oppure con il marito lontano, possiamo indovinare delle vere e proprie “manager”, artefici – alla pari e spesso più dei mariti – del benessere che molte famiglie oggi hanno raggiunto. Allora questa festa della donna, facendoci spazio tra le mimose, la dedichiamo a chi non ha mai avuto possibilità di apprezzamento, ma che è riuscita a traghettare la nostra collettività facendola evolvere in quella che oggi conosciamo. (Luigi Calvisi, Redattore Capo del Periodico LA CICIUVETTA, il Giornale di Fossa).