L’AQUILA: – di Luigi Casale – L’articolo che segue era destinato – come gli altri d’altronde – alla mia rubrica personale di storie minime; nello stesso tempo però è proposta di soggetto culturale e esercizio di pratica consapevole di lingua parlata. Scritta per l’occasione.
Dovete sapere … Per non farvela lunga, abbrevio.
Prima di trasferirmi in Alto Adige, paesaggio di montagne e regione ricca di varia vegetazione, avevo preso l’abitudine di portare la famiglia in vacanza dalle parti del Lago Maggiore: per l’esattezza nella Valle Strona, tra il Lago d’Orta e il Lago Maggiore (o, meglio, il piccolo Lago Mergozzo), all’epoca provincia di Novara, con di fronte il Mottarone.
Per me, che fino a quel momento ero convinto che la vacanza fosse un lusso, essa divenne una necessità dopo la nascita in tre anni di numero tre figli. Si era nell’anno successivo alla pubblicazione del romanzo-racconto di Gianni Rodari: “C’era due volte il barone Lamberto, ovvero i misteri dell’isola di San Giulio” (1978).
Di G. Rodari, i miei figli avevano già cominciato a ricevere alcuni libri, dono da parte del loro zio e di altri amici intellettuali; e pertanto già avevano ascoltato dalla voce della mamma i racconti e le poesie. Quell’anno, con l’uscita del Barone Lamberto, sentirono anche la lettura di alcune sue pagine (lo dico adesso: molto interessante l’incipit), e, nonostante la tenera età, erano in grado di percepirne la verve, lo spirito, lo scherzo. Inoltre, sempre attraverso la lettura che gliene faceva la mamma avevano già appreso alcune delle “filastrocche in cielo e in terra” o delle “favole al telefono” (due delle preziose opere del citato autore), o dei ricercati e vivaci limerick, o dei dissacranti e saggi componimenti del “libro degli errori” (altra importante opera). Sicché per la vacanza di quell’estate 1979 sembrò inevitabile, quasi un obbligo, oltre che visitare Omegna, città natale di Rodari, che già conoscevamo per averla visitata negli anni precedenti, fare questa volta anche un’escursione sull’isola di San Giulio, al centro del lago d’Orta, sede di quei “misteri” di cui si narravano le meraviglie nel nuovo romanzo.
Tra le altre stranezza che ci capitò di elencare, come il piccolo approdo nelle prossimità della chiesa; la brevità della passeggiata per percorrere l’intera isola; la bellissima chiesa romanica col pulpito in pietra nera locale; la foresteria di una piccola comunità di suore di clausura che dava direttamente sul lago, di fronte all’imbarcadero di Orta; l’esiguità del numero di costruzioni; la stessa mancanza di persone circolanti che facevano sembrare l’isola disabitata; notammo una curiosa vegetazione, ancora più strana per noi abituati alla macchia mediterranea, agli orti, ai giardini di frutta, alle estese coltivazioni. Ci colpì in particolare una pianta: un albero massiccio che presentava dei frutti a grappolo dalla forma di mandorle essiccate, un po’ più bruni, più gonfi, più appuntiti, e, data la stagione, più secchi. Nel raccoglierne da terra qualche esemplare ci accorgemmo che si trattava di gusci legnosi, leggermente aperti verso la punta. Per il fatto che ci fossero estranei e sconosciuti, Patrizia ed io ne deducemmo che si trattasse di una peculiare vegetazione lacustre.
La vacanza, molto interessate, riposante, ristoratrice, purtroppo breve, finì. E così si ritornò al Sud. All’epoca, pur abitando noi a Roma, poiché i bambini non erano ancora in età scolare, insieme alla mamma trascorrevamo lunghi periodi a casa di mia suocera a Torre Annunziata, dove la nonna Iolanda, li accoglieva con grande gioia. Quando a fine settimana, dopo il lavoro, rientravo da Roma anch’io, una mezza giornata si faceva visita a mia madre, la nonna Elia, a Pompei.
Quell’anno sul finire della stagione, di ritorno dalla vacanza in Piemonte, trovammo mia madre alle prese col un problema. Rami di un albero molto rigoglioso, data la stagione, le occupavano il vano della finestra, impedendo alla serranda di srotolarsi. Per la verità quella non era la prima volta che era costretta a potare l’estremità di quei rami che le ostacolavano, oltre che la vista, lo stesso regolare uso dell’infisso. E ce ne eravamo accorti. La povera donna frequentemente era costretta a strappare foglie e frasche, più o meno lunghe, per liberarsi dall’invadenza esterna e dall’ulteriore rischio di eventuali danni. Osservato il suo affanno, questa volta ci accingemmo ad aiutarla, mia moglie ed io, prima per sollevarla dall’inconveniente, ma anche perché operando sarebbe stato più facile tagliare l’estremità dei rami inopportuni, una reggendoli, l’altro strappandoli.
Grande fu lo stupore quando ci accorgemmo che quell’albero era della stessa specie di quelli che avevamo conosciuti – o creduto di aver conosciuto – quell’estate nell’isola di San Giulio. Eppure con quella pianta ci eravamo convissuti da almeno dieci anni, cioè da quando mia madre si era trasferita in quella casa una decina d’anni prima.
Per quell’estate la cosa finì lì. Ma non era finita. Alla fine della stagione estiva, nuovi eventi e nuove decisioni ci portarono ad optare per un trasferimento della residenza della famiglia in Alto Adige. Iniziava una nuova fase della nostra vita. Io avevo cambiato lavoro. La famiglia, cambiate abitudini. Fortunatamente i bambini non avevano ancora fatto esperienza di scuola a Roma. Questo trasferimento comportò che da quell’anno si preferissero le vacanze al mare, e per restare più vicini alle nonne si ritornò al mare di Napoli, il mare nostro. La nonna Iolanda, come aveva sempre fatto, continuò a mantenere per noi la cabina al mare, la stessa che aveva sempre riservato da quando portava i suoi figli ai bagni di mare. E così dalle parti di Omegna non si ritornò più.
Ma veniamo alle nuove abitudini alle quali dovemmo assuefarci, con nostro compiacimento in verità. I bimbi per quanto piccoli si recavano a scuola da soli. Alcuni anche in bicicletta. Tralascio gli altri vantaggi che ci capitò di apprezzare un po’ per volta. Solo voglio registrare il fatto che recandomi quotidianamente a Bolzano per motivi di lavoro, imparai a notare che tutti gli alberi dei parchi pubblici, e i filari che costeggiano le strade, erano contrassegnati da una targhetta col nome volgare (italiano e tedesco) e il corrispondente nome scientifico della pianta. In quella manifestazione non pensavo tanto alla correttezza amministrativa o al livello di senso civico, ma evidenziai solo la funzione pedagogica verso i ragazzi della scuola, e più ancora verso la popolazione in genere.
Dopo qualche mese, la stessa emozione la provai quando in visita al Museo (ex palazzo vescovile) di Bressanone, lungo l’antico fossato ci imbattemmo in un magnifico, colossale, albero secolare, identico sia a quelli che avevo visto nell’isola di San Giulio sia a quello del cortile dell’abitazione di mia madre a Pompei, il quale portava la sua brava targhetta dove, insieme alla data dalla quale ne era documentava la presenza in quel sito, anche il nome della pianta : Paulownia Tomentosa. Così ho conosciuto la Paulonia.
Che cosa c’entra questa esperienza con l’attività di sensibilizzazione e di educazione promossa dai naturalisti e dalle Civiche Amministrazioni? E che cosa ha a che fare questo racconto con la cultura?
Io dico che ci serve innanzitutto per capire. Nell’uno e nell’altro campo d’azione o di interessi. E mi viene in mente il racconto biblico – cerco di ricordare alla men peggio – in cui Dio, dopo aver creato il mondo universo compresa la coppia umana, chiama Adamo a dare i nomi alle cose? Ecco, quale che sia l’esegesi che ne fanno i dotti, io credo di cogliere proprio questo fatto, cioè che l’uomo è chiamato [da Dio] a sviluppare il linguaggio e ad organizzare il pensiero servendosi delle cose create; in altre parole attraverso la sua diretta esperienza. Da piccoli, ci insegnavano che questo racconto rappresenta il dominio dell’uomo sul creato.
Ebbene, sono disposto ad accettare questa spiegazione, solo però nel senso che ho detto prima: “L’uomo, padrone del mondo sì; ma attraverso il linguaggio e guidato dalla ragione; partendo dalla esperienza”.