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Fiaba aquilana “Ci stea ‘na ‘ote” di Mario Lolli, musicata da Camillo Berardi ed eseguita dalla “Corale Gran Sasso”

Pubblicato da Redazione
venerdì, 18 Giugno 2021 - 09:33
in Attualità, Cultura, Musica e Spettacolo, Varie

L’AQUILA – di Camillo Berardi – Tra i componimenti più affascinati scritti dal poeta aquilano Mario Lolli, figura il racconto “Ci stea ‘na ‘ote”, una fiaba ammaliante che in maniera originale narra la nascita degli Abruzzesi “Forti e gentili”.

L’Abruzzo, con oltre il 30% del territorio inserito nel comprensorio dei parchi, rappresenta la regione più verde d’Europa, superbamente dominata dalle vette più alte dell’Appennino.

Questi scenari grandiosi dai fascini infiniti – dove la natura ha creato stupefacenti prodigi non privi di mistero – sono stati testimoni silenziosi di civiltà antichissime che affondano le radici nella preistoria, nei miti e nelle leggende, trasmesse da tempo immemore di padre in figlio, oralmente e a memoria.

Ignazio Silone ha scritto che “Il destino degli uomini della regione che da circa otto secoli viene chiamata Abruzzo è stato deciso principalmente dalle montagne”, ma anche l’origine della fiera stirpe abruzzese, “Forte e gentile”, è legata ai monti; non a caso la Majella e stata chiamata “Magna Mater” da Ovidio, Macrobio e Lucrezio, e “Montagna materna” dal popolo abruzzese.

Il rapporto ancestrale tra l’uomo e l’ambiente continua, silenzioso e inarrestabile, sulle superbe montagne abruzzesi dove “i taciturni dalle spalle quadre”, nostalgici delle proprie radici, tornano a riscoprire l’originario tempio della vita.

Nella località di Bocca di Valle – nei pressi di Guardiagrele (CH), alle falde della Majella, il mito atavico della “Montagna Madre” rivive, superbamente, nella gigantesca epigrafe scolpita sulla nuda roccia, all’esterno del suggestivo Sacrario che accoglie – in una grotta – le spoglie dell’eroe abruzzese Andrea Bafile, (Medaglia d’Oro ‘al Valor Militare), caduto sul Basso Piave nella prima guerra mondiale; la mastodontica iscrizione rupestre, su parole dettate da Raffaele Paolucci, recita testualmente:

“Figli d’Abruzzo morti combattendo per l’Italia e sepolti lontano tra le Alpi e il mare, la Maiella madre vi guarda e benedice in eterno”. Mai, come in questo luogo, il nome di Madre è appropriato e commovente. La montagna che nei secoli ha idealmente custodito le vigorose virtù delle genti d’Abruzzo, accoglie nel suo grembo materno un figlio eroico della sua terra, e rappresenta, ad imperituro ricordo, l’altare dell’eroismo abruzzese.

L’inesausta sete di conoscere le nostre radici e l’ansia, mai sopita, di riscoprire i caratteri originali della nostra cultura, in ogni tempo hanno cercato di ricostruire e ricomporre la genesi delle nostre origini, attingendo alla storia, scavando nella memoria e nei segreti del passato, catturando sinanco nel fantastico e nell’immaginario. Attraverso queste leggende ammalianti, scopriamo moltissimi elementi che ci svelano universi sconosciuti – o poco noti – che ci appartengono, dai quali si e dipanata l’avventura umana.

E’ noto, del resto, che i popoli di tutto il mondo non intendono fermarsi ai meri avvenimenti della loro storia di ieri o di oggi, ma vogliono risalire molto indietro nel tempo, e ritrovare, attraverso le loro tradizioni e credenze, la propria identità e le proprie origini.

Il maestoso Gran Sasso, aspro e selvaggio, con le sue vette vertiginose – definito “Re degli Appennini” – e la Majella – denominata “Gran Madre” e “Montagna materna” – con forme gentili, sinuose e morbide, rappresentano i luoghi più incantati e più incantevoli dell’Appennino, e vantano una storia millenaria, antichissima, avvolta da miti e leggende che ancora oggi esercitano un fascino particolare. Questi attraenti “giganti di roccia” sono custodi gelosi e silenziosi della nostra storia millenaria e delle nostre origini con radici culturali profonde, fondate anche su fiabe e leggende popolari situate al confine del mondo conosciuto e al di fuori del tempo. Tali racconti, desueti e non convenzionali, ancorati, a volte, alla primitiva visione della natura, contribuiscono alla ricostruzione delle nostre ataviche culture, rifacendosi alle primordiali personificazioni dei monti, agli ancestrali processi antropomorfici, a miti cosmici e a reminiscenze primitive in cui e racchiusa l’essenza autentica del popolo abruzzese.

Le montagne, stagliate verso l’infinito e permeate di arcana magia, hanno sempre ispirato l’immaginario, sia individuale che collettivo, sia colto che popolare, con ampi margini di fantasia, ma sappiamo che le leggende che ne derivano, sottendono sempre un fondo di verità.

La fiaba “Ci stea ‘na ‘ote”, scritta dal poeta aquilano Mario Lolli musicata da Camillo Berardi, è ambientata nel nostro pianeta, paragonato ad un “gomitolo” (gammotta) – vagante nell’universo insieme alle stelle e ad altri corpi celesti – ricoperto da aridi oceani di rocce e da sconfinate distese di ghiacci, agli albori delle primordiali e rare forme di vita, prima della comparsa dell’uomo sulla Terra.

In questo scenario selvaggio e desolato, l’impervio Gran Sasso e la maestosa Majella – “più bella delle altre montagne” – assumono sentimenti umani e con la loro storia d’amore, accolta festosamente dal primigenio rigoglio della natura trionfante e variopinta, diventano i protagonisti, responsabili dell’origine della fiera stirpe abruzzese, “forte e gentile”.

La fiaba, desueta e al di fuori dei cliché convenzionali, rappresenta suggestivamente “La leggenda degli abruzzesi” e come ogni favola incomincia con “Ci stea ‘na ‘ote” (C’era una volta).

Musicato da Camillo Berardi ed eseguito dalla Corale “Gran Sasso” diretta dal M° Carlo Mantini, ascoltiamo questo canto.

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