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Mobbilla: Come si fa a riconoscere se si è vittima di mobbing?

Quali sono le tattiche di chi fa mobbing? Bullo, mobber, psicopatico. La personalità di chi vessa gli altri sul luogo di lavoro

Pubblicato da Redazione
mercoledì, 27 Gennaio 2021 - 12:51
in Attualità

L’AQUILA – di Paola Retta – L’argomento trattato nel precedente pezzo dal titolo Come riconoscere il Mobbing: dalla normale relazione conflittuale al mobbing (se sei curioso clicca qui e scarica il podcast e l’articolo), ha stimolato la mia curiosità, specialmente su ciò che Leyman [1] ha studiato riguardo alla tendenza dei vertici di ogni azienda a mantenere al proprio interno uno stato di equilibrio che consentirebbe di lavorare nelle migliori condizioni possibili, a vantaggio della produttività. Il mobbing, quindi, non arreca danno soltanto al lavoratore che lo subisce, ma anche all’azienda stessa, che ha al suo interno situazioni di conflitto che vanno a rompere lo stato di equilibrio che si ha in condizioni normali.

Tra gli studiosi che si sono occupati di questa tematica, Henry Walter [2] sostiene che il presupposto fondamentale perché si verifichi un atteggiamento positivo nei confronti del lavoro è la capacità, da parte dello stesso, di soddisfare i nostri desideri materiali ed immateriali. Le cause per cui questo non avviene e per cui si crea un sentimento di malessere nei confronti del nostro impiego sono molteplici.

L’autore ne evidenzia 15: • Insicurezza del proprio posto di lavoro. • Mancanza di riconoscimento, di sostenimento e di possibilità di promozioni. • Fine della carriera. Mancanza di riposo. • Determinazione, controllo e sorveglianza esterni. • Intrighi e reticenza di informazioni. • Conflitti con il superiore. • Conflitti con i colleghi, simpatie e antipatie. • Concorrenza tra colleghi. • Compiti oscuri ed incongruenti. • Noia e monotonia del lavoro. • Richieste eccessive o insufficienti. • Pressione causata da responsabilità non proprie. • Isolamento sul lavoro e nella vita privata. • Mancanza d’identificazione con l’azienda ed i suoi scopi.

Tutto ciò rientra nelle normali aspettative di un lavoratore e, se non soddisfatte, possono creare frustrazione, demotivazione ed avvilimento. Nel mobbing, tuttavia, si inserisce una componente di natura criminologica, che va ben oltre i micro-conflitti che si creano, per mille variabili, all’interno del contesto lavorativo e cioè l’intento doloso da parte di uno dei due partecipanti che esercita in modo disfunzionale il potere per svariate ragioni che vanno dall’ambizione, alla gelosia, alla semplice antipatia personale. In questi casi, il Mobbing si sviluppa completamente all’oscuro della Direzione aziendale.

Ciò che salta agli occhi, è che esiste una costante: la vittima è sempre in una posizione inferiore rispetto ai suoi avversari. Inferiorità non riferita al potere, all’intelligenza o alla cultura, ma allo status, infatti durante un lungo periodo di tempo in cui subisce Mobbing, la vittima perde gradatamente la sua posizione iniziale, venendogli meno, in un processo in continua evoluzione, la sua influenza, il rispetto degli altri, il suo potere decisionale, la salute, la fiducia in se stesso, gli amici, l’entusiasmo nel lavoro, la sua dignità.

La domanda che potrebbe sorgere spontanea è: perché una relazione lavorativa conflittuale può arrivare ad avere un intento doloso tanto da generare quanto appena elencato? Che personalità ha un individuo e/o mobber che può sentire il desiderio di nuocere ad un suo simile e/o sottoposto?

Dal punto di vista criminologico [3] quando si parla di personalità deviante e/o pericolosa, si fa riferimento alla personalità sociopatica che è multidimensionale e complessa, ha tante sfaccettature contemporaneamente. Si assiste alla prevalenza di tratti disfunzionali più o meno evidenti e quelli che con costanza accompagnano questo tipo di personalità sono il tratto narcisistico e quello sadico-aggressivo. Questi aspetti sono persistenti e si sommano ad altri tratti disfunzionali come ad esempio quelli ossessivi. Lo sbaglio in cui è indotta l’opinione comune circa il riconoscimento di una personalità pericolosa e/o sociopatica, è dovuto anche ad alcune interpretazioni e riferimenti culturali stereotipati che fanno inciampare nell’errore di non valutare tutti i contesti. Si può facilmente cadere su modelli culturali che inseriscono il male intenzionato soltanto all’interno di determinate categorie sociali.  Avviene, quindi, che nella lettura di determinati dati di focalizzarsi su campioni non rappresentativi del totale della popolazione, in quanto basati su inferenze statistiche derivanti da specifici target come quello della devianza emersa e “certificata”. Infatti si identifica spesso il deviante/bullo con un individuo appartenente a determinate subculture o classi sociali, con la variabile “scolarità non portata a termine” costante. Una delle poche cose democratiche è il disagio mentale, è ovunque nella società. Lo psicopatico, o psicopatica, pericoloso per il prossimo della stessa specie, ma anche nei confronti di un’altra specie mammifera in condizione di dipendenza, è ovunque e possiamo ipotizzare che maggiore è la sua conoscenza ed i mezzi di cui disporre, maggiore sarà la sua pericolosità sociale. [4] Facendo un esempio estremo possiamo citare Hitler e proviamo ad immaginare come si poteva comportare con i suoi collaboratori e/o con chiunque entrasse in relazione con lui. Tutti loro, probabilmente, rischiavano la vita per ogni minuzia”.

Tornando ai nostri giorni, nelle mie ricerche [5] ho trovato un articolo dal titolo curioso: “Lo psicopatico dietro la scrivania”, pubblicato, nel 2016, dalla rivista Rassegna Italiana di Criminologia [6]. È uno studio in cui si approfondisce il tema di persone egocentriche, prive di capacità empatiche, spregiudicate, manipolatorie, machiavelliche, incapaci di rimorso, narcisistiche, disoneste e menzognere che rivestono cariche importanti all’interno di aziende, ma che sono definibili come psicopatici e la cui presenza può portare ingenti danni economici e di immagine alle aziende stesse. Mi piacerebbe parlarne, nelle prossime puntate in maniera più analitica, insieme ad un caso che ne sembra una diretta conseguenza e che è balzato agli onori delle cronache da diversi mesi, quello di Sara Pedri, della quale non si hanno notizie da marzo 2020 e che non si è più presenta sul luogo di lavoro, l’ospedale Santa Chiara di Trento, a seguito di vessazioni ed umiliazioni continue da parte dell’ormai ex primario del reparto di ginecologia.

Per maggiore approfondimenti su questa puntata clicca qui.

Pagina Facebook di Mobbilla.

[1]Charles Leyman Kachitsa, “Back to Work”, 2015.AuthorHouse UK
[2]  Henry Walter, Claudia Cornelsen,  “Mobbing: Kleinkrieg am Arbeitsplatz: Konflikte erkennen, offenlegen und lösen”. 1993. Campus Verlag Ed.
[3] Gullotta, “Compendio Di Psicologia Giuridico-Forense, Criminale E Investigativa”, 2020. Giuffrè Ed.
[4] Otto F. Kernberg, “Aggressività, disturbi della personalità e perversioni”, 1996, Cortina Raffaello Ed.
[5] Isabella Merzagora, Guido Travaini, Ambrogio Pennati, “COLPEVOLI DELLA CRISI? Psicologia e psicopatologia del criminale dal colletto bianco”, 2017, Franco Angeli Ed.
[6] https://ojs.pensamultimedia.it/index.php/ric

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