L’AQUILA – di Giorgia Manilla – L’argomento è spigoloso e scottante. Mettere le mani in pasta, in questa miscela esplosiva, significa spesso sentirsi additare come più o meno omofobi, o pro o contro gli omosessuali. Naturalmente la questione è molto più amplia e complessa.
Vorrei infatti riflettere sulla possibilità di considerare l’omogenitorialità come una opportunità da cui ripartire per ridefinire le differenti forme di genitorialità, socialmente e legalmente accettate, presenti nella nostra società; ma anche dare il giusto significato alla trasformazione della dinamiche relazionali che oggi, a quanto pare, ci travolge.
Le coppie genitoriali omosessuali ci portano i loro vissuti attraverso i quali possiamo porci una domanda fondamentale: siamo disposti a rivedere i costrutti fondanti della nostra psiche e conseguentemente della nostra cultura e società? siamo disposti a destrutturare la complementarietà rigida tra sesso, orientamento sessuale, genere, ruoli di genere, espressione dei ruoli di genere e sessuali, generatività biologica e simbolico-affettiva? Siamo disposti ad accettare che il processo di co – genitorialità (ovvero situazione in cui due o più persone assumono il ruolo di genitori di un bambino pur non essendo legati da un vincolo più o meno socialmente riconosciuto) sia da tempo una realtà sociale?
Rispetto a ciò mi sembra utile sottolineare che, le ricerche svolte negli ultimi anni a livello mondiale, inerenti l’adeguatezza dello sviluppo del benessere psicologico e di un’idonea regolazione del livello emotivo ed affettivo nei figli di coppie omosessuali, conducano ad un esito piuttosto univoco e condiviso. Non emergono infatti differenze significative riguardo a disturbi comportamentali, psicologici e di scarsa integrazione sociale tra i figli di coppie omo od eterosessuali; mentre sono netti i problemi che si creano per i figli di coppie omosessuali in ambienti sociali inospitali. Emerge che, più sono forti le discriminazioni a cui questi bambini sono sottoposti durante lo sviluppo (dai commenti alle prese in giro, dal bullismo all’omofobia fino al rifiuto) maggiori sono i problemi dimostrati. Dunque sarebbero le stigmatizzazioni e non l’orientamento sessuale dei genitori ad influire in modo negativo sulla loro crescita.
E’ evidente, dai risultati che si evincono da tali ricerche, che la soluzione a tali problematiche evolutive nei figli di coppie omosessuali sia individuabile innanzitutto nel perseguimento della crescita e dell’adeguamento culturale delle comunità a questo nuovo tipo di costellazione famigliare, che passa attraverso l’attribuzione alle stesse delle famiglie tradizionali con medesime condizioni , doveri e diritti.
Dunque chi è davvero “un genitore”? Basta un legame biologico con la propria progenie? O è “chi si prende cura dei figli” a potersi definire tale? Si tratta di un dato oggettivo, di un ruolo che deve essere riconosciuto socialmente, o è un processo intimo e intrapsichico?
Dal punto di vista psicologico, credo vi sia bisogno di una definizione della genitorialità che permetta di descriverne i processi mentali, presenti tanto nelle famiglie fondate sulla procreazione, quanto in quelle adottive e in quelle “di fatto” in cui la genitorialità è evidente ma non riconosciuta legalmente, ovvero nelle situazioni di genitorialità sociale.
Le funzioni genitoriali corrispondono alle capacità di rispondere ai bisogni di cura, prima di tutto di un figlio, ma anche di un qualunque essere in posizione di dipendenza. Includono la capacità di conoscere il funzionamento dell’altro e provvedere a lui, garantirgli protezione, entrare in risonanza affettiva e facilitarne la regolazione emotiva, dare limiti e sostenerne lo sviluppo psicofisico e la mentalizzazione, offrire un contenimento simbolico e arricchire di significati l’interazione, permettergli di pensarsi dentro una storia.
A livello psicodinamico, tale capacità dipenderà in gran parte dall’esperienza dell’individuo, prima di tutto nella relazione con i propri genitori, ma in generale nelle diverse relazioni di accudimento-attaccamento in cui costantemente si articolano, confermano, rinnovano e cambiano i modelli operativi interni ( MOI, l’insieme di schemi di rappresentazione interna che costituiscono immagini, emozioni, comportamenti connessi nell’interazione tra il bambino e gli adulti significativi , che diventano ben presto inconsapevoli e tendenzialmente stabili nel tempo) e le rappresentazioni relazionali della persona.
Da un punto di vista sistemico, tuttavia, una simile capacità non ha un carattere assoluto, ovvero il soggetto che la esercita riflette una disponibilità per l’altro specifico, situata nel contesto, nel tempo e specificamente nella relazione, rispondendo ad una complessa ecologia identitaria: chi sono io? Chi è l’altro per me? In che contesto si realizza la nostra relazione? Cosa posso fare? Per chi lo posso fare? Cosa dovrò fare? Per quanto tempo? In cambio di cosa? Lo farò in modo sufficientemente buono? Che conseguenze avrà per l’altro e, quindi, che conseguenze avrà per chi sono io?
Tale “disponibilità per l’altro specifico “però non può essere considerata come lo “sperimentarsi in quanto genitore”. Infatti possiamo dire che questa modalità di prendersi cura può essere sperimentata da un figlio attraverso la disponibilità del sistema famigliare; ma può essere esercitata anche da un educatore verso un bambino/ragazzo all’interno di contesti istituzionali.
L’essere genitore si caratterizza per il fatto che l’individuo assume la responsabilità dell’esercizio della funzione genitoriale nei confronti di un altro specifico, suo figlio, come parte centrale della sua identità. Questi sceglie il figlio (lo ad-òpta) come parte del proprio sé esteso, come espressione centrale del suo senso di generatività, come erede simbolico del proprio patrimonio di vita. Il termine “scelta” rispecchia un movimento emozionale verso l’altro, caratterizzato dalla volontà di includerlo nella propria esistenza.
E’ in questo momento che la coppia, sia omo che eterosessuale, inizia il suo percorso verso lo sviluppo della propria immagine genitoriale attraverso elementi significanti e significativi che giustificano, rinforzano e proteggono la scelta identitaria del genitore.
Questi fattori sono la progettualità pre-natale, la gravidanza, la consapevolezza del legame biologico, il riconoscimento legale dell’adozione, il riconoscimento sociale del ruolo genitoriale, la relazione co-genitoriale. E’ importante sottolineare che non è direttamente consequenziale il pensarsi genitore con l’essere genitori; non è infatti garantito che elementi significanti e significativi comportino automaticamente una identità genitoriale (vedi adozioni fallite, oppure i processi di surrogacy).
L’identità genitoriale deve, dunque, essere distinta dall’identità di ruolo sociale. “Sono genitore di…” è un contenuto dell’identità che ha valore diverso quando si riferisce al sentirsi genitore o, invece, al sapere di esserlo dal punto di vista formale.
A livello psichico, non esiste genitore senza figlio, né figlio senza genitore, e la genitorialità non può che essere definita come una relazione identitaria. Essa ha inizio con una adozione psichica a cui risponde una affiliazione psichica. In tale relazione ciascuna delle parti si spiega a partire dalla definizione che l’altro da di sé: io sono tuo figlio perché tu sei il mio genitore; io sono il tuo genitore perché tu sei mio figlio. Tale definizione diviene immediatamente fondamentale per le due parti.
Sembrerebbe dunque, anche rispetto gli esiti delle ricerche considerate, che tale “relazione identitaria genitore – figlio” non sia necessariamente assoluta e rigida rispetto ad una data figura genitoriale. A livello filiale, la costruzione identitaria che si crea propria della relazione con il genitore, appare molto flessibile e plasmabile. La costruzione del livello cognitivo creata grazie alla relazione genitoriale permette al figlio di elaborare le più primordiali coordinate del suo mondo psichico, attraverso l’istanza dell’attaccamento, poi costantemente e retroattivamente rinnovato, mano a mano che nuove esperienze e capacità cognitive possono dare significato alle esperienze pregresse.
Il processo di attaccamento inconscio, che si ha nei primi anni di vita, viene così correlato all’affiliazione psichica a livello identitario della definizione di sé.
Queste nuove ipotesi psichiche portano facilmente ad introdurre il processo di co-genitorialità laddove vi è sia la possibilità di un figlio di costruire la propria identità come figlio di tutti i suoi genitori, in una rete di adozioni-affiliazioni che struttura la sua rappresentazione di sé come parte di un gruppo fondamentale, ovvero la sua identità familiare.
Nell’arco di vita l’affiliazione può estendersi a nuove relazioni, qualora lanegoziazione all’interno del sistema relazionale lo consente.
Rimangono aperte molte questioni a riguardo. Per esempio come si ricollocano in questo scenario il codice materno ( protezione ed empatia) e quello paterno ( emancipazione e normatività)?
Un figlio, soprattutto da piccolo, probabilmente ha maggior bisogno di una struttura psichica e relazionale definita, chiara e poco confusiva?
Se partiamo dall’assunto che la nascita di un figlio abbia una forte componente di gratificazione narcisistica e che il figlio sia vissuto come una prova della forza generativa della coppia come si può coniugare con l’idea di co-genitorialità elettiva?
Inoltre a quante e quali aspettative, inconsciamente proiettate su di lui/lei, si troverà a dover rispondere?
Altri ancora sono le questioni aperte ma, certamente, sono convinta che una maggiore apertura a queste nuove costruzioni famigliari comporterebbe una migliore comprensione e condivisione degli inevitabili cambiamenti sociali in atto.
(*) L’articolo scritto riprende alcune parti dell’articolo del Dott. Federico Ferrari, psicologo-psicoterapeuta, “La genitorialità come relazione identitaria fondamentale: apprendere dall’omogenitorialità”.2015.