L’AQUILA: – di Nicola Facciolini – Nepal AD 2015, la desolazione e la distruzione prodotte dal potenziale sismico e vulcanico mondiale provocheranno catastrofi peggiori di quella Nepalese del 25 Aprile e del 12 Maggio 2015 (magnitudo 7.9 e 7.3; 8659 morti; 100mila feriti; 384 dispersi; 500mila abitazioni distrutte). La tragedia più terribile, come giustamente ricorda Reinhold Messner, non è sull’Everest, ma tra le valli e i villaggi dove case e vite sono stati cancellati. Milioni di bambini nepalesi sconvolti e falcidiati dal sisma e dalle frane sono a rischio, secondo l’Unicef, per disidratazione, malattie e tratta dei minori. La rottura del piano di faglia, che si immerge a basso angolo sotto la Catena Himalayana, è partita da ovest e si è propagata verso est per oltre 150 Km. La zona è nota per la sua attività sismica ed è considerata una delle regioni a più alto rischio sulla Terra. L’attività sismica è causata dalla convergenza tra la Placca indiana, a sud, e la Placca euro-asiatica a nord, che ha determinato la formazione della Catena dell’Himalaya. Il movimento relativo tra le due Placche è di 45 millimetri per anno, di cui si stima che 20 millimetri per anno vengano accumulati lungo il margine meridionale della catena montuosa. Questo significa che ogni 100 anni si accumula una deformazione pari a 2 metri di spostamento relativo tra le due Placche. Nell’area colpita dal terremoto del 2015 non ci sono stati forti eventi sismici da diversi secoli. Per questo motivo la zona intorno alla capitale Kathmandu era considerata un “gap sismico”. Il Rapporto preliminare sulla catastrofe nepalese, redatto dalle Nazioni Unite, parla chiaro anche se un bilancio definitivo è ancora prematuro. La faglia fra le placche tettoniche indiana e euroasiatica, spiegano all’IT Geological Survey (Ingv) e allo U.S. Geological Survey, le Agenzie scientifiche italiana e statunitense, è una delle più sismicamente attive della Terra. I Terremoti e la Prevenzione nella Storia. Nel Mondo, solo nell’ultimo secolo, oltre tre milioni di vittime sono state provocate dagli effetti degli eventi sismici combinati alla corruzione politica dilagante sul territorio. Il Nepal continua a tremare. Secondo l’approccio olistico della Geosistemica, il pianeta Terra è considerato un unico grande Sistema in cui ogni singolo fenomeno è il prodotto dell’interazione delle parti che lo costituiscono sotto forma di trasferimento di particelle e/o di energia. Concorrono alle ricerche esperti in Sismologia, Fisica dell’Alta Atmosfera, Geomagnetismo ed Elaborazione dati satellitari. Magari grazie anche alle misure effettuate dal drone shuttle statunitense Boeing X-37, costantemente monitorato dalla Russia, in grado di orbitare come più si conviene per acquisire ogni genere di informazioni sulla Terra. Il crollo della Torre di Dharahara, che da 183 anni svetta sulla città di Kathmandu, con i suoi 200 morti è diventato il simbolo della distruzione che ha colpito il Nepal. La nostra L’Aquila 2015 quanto tempo dovrà attendere, dal sisma dell’Anno Domini 2009, per una ricostruzione solida, efficace e sicura? Per la riduzione della vulnerabilità degli edifici esistenti o per la progettazione di nuovi, sapere che una struttura può subire forti scuotimenti ravvicinati cambia la prospettiva di intervento e le aspettative di vita. Qual è lo stato di attività del Marsili, il più grande vulcano d’Europa e del Mediterraneo? È attivo? Esiste un pericolo tsunami legato al possibile distacco di una grande frana per collasso laterale? Qual è lo stato attuale delle conoscenze su questo vulcano? Il Campi Flegrei Deep Drilling Project, alla scoperta della megacaldera del Golfo di Napoli. I prossimi 22-23 Ottobre 2015 ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn sul Gran Sasso si terrà il simposio “Scienza e Tecnologia, un dialogo che continua”.
(di Nicola Facciolini)
“Io personalmente sono terrorizzata. Mi sono occupata delle conseguenze di alcuni dei più forti terremoti nel mondo, Haiti, Bam, Kashmir e Gujarat, ma questo sarà molto peggio” (Moira Reddick, sismologa del Nepal Risk Reduction Consortium, Kathmandu 28 Luglio 2014). Aiutiamo il Nepal. Sono sempre più drammatiche le dimensioni della catastrofe provocata dagli effetti dei terremoti di magnitudo 7.9 e 7.3 che hanno flagellato il Nepal il 25 Aprile e del 12 Maggio 2015, provocando 8659 vittime, 100mila feriti e 500mila abitazioni distrutte, aggravando il quadro umanitario già disastroso durante e dopo la guerra civile del 1996-2006 costata la vita a 15mila Nepalesi. La tragedia più terribile, come giustamente ricorda Reinhold Messner, non è sull’Everest, ma tra le valli e i villaggi dove case e vite sono stati cancellati. Perchè non esistono vittime di serie A e B. Milioni di bambini nepalesi sconvolti e falcidiati dal sisma e dalle frane sono a rischio, secondo l’Unicef, per disidratazione, malattie e tratta dei minori. Gravissime le distruzioni di edifici e monumenti storici nella capitale Kathmandu, ma anche nelle storiche città vicine di Patan (Lalitpur) e Bhaktapur. L’onda sismica si è estesa ai tre Stati dell’India nord-orientale (Bihar, West Bengala e Uttar Pradesh), al Tibet ed al Bangladesh. I terremoti hanno causato imponenti valanghe nella zona dell’Everest, che hanno travolto diverse spedizioni di scalatori. Il Nepal continua a tremare mentre la corruzione uccide più dei terremoti. E si prega per il ritorno dei turisti. A due mesi dal sisma di magnitudo 7.9 che ha colpito il Tetto del Mondo alle ore 6:11 UTC di Sabato 25 Aprile 2015, le ore 8:11 in Italia, le ore 11:56 in Nepal, purtroppo continua ad aggravarsi il bilancio da choc. Si delinea meglio il quadro sismologico di quanto è accaduto. Numerose repliche (aftershocks) hanno colpito la zona della faglia che si è attivata il 25 Aprile, molte delle quali intorno alla capitale Kathmandu, tra cui quella di magnitudo 7.3 delle ore 7:05:19 UTC e di magnitudo 6.3 delle ore 7:36:53 UTC, entrambe registrate il 12 Maggio 2015. Gli aftershock dei primi due giorni sono localizzati tutti a sud-est della scossa principale, verso Kathmandu, in un’area che si estende per circa 160 Km. La zona con poche repliche corrisponde a quella che ha avuto il massimo scorrimento cosmico. Il 12 Maggio 2015 la regione di confine tra Nepal e Cina è stata colpita dalla forte replica di magnitudo 7.3 localizzata circa 150 Km ad est dell’epicentro del terremoto principale della sequenza. Case e infrastrutture erano già del tutto inadeguate ad assorbire il devastante terremoto di magnitudo 7.9 della scala Richter. La faglia fra le Placche tettoniche indiana e euroasiatica, spiegano all’IT Geological Survey (Ingv) e allo U.S. Geological Survey, le agenzie scientifiche italiana e statunitense, è una delle più sismicamente attive della Terra. Un evento tragicamente prevedibile, come il futuro Big One californiano, ma che ha colto del tutto impreparato il poverissimo, famosissimo e visitatissimo Stato del subcontinente indiano, sovraccarico di spedizioni alpinistiche pubbliche e private grazie agli sponsor oggi chiamati a fare la loro parte per aiutare le popolazioni nepalesi. Il bilancio delle vittime stimato dalle autorità locali ad oggi è di 8659 persone e 100mila feriti. Sono 14 (su 75) i distretti severamente danneggiati dove vivono 5,6 milioni di persone. Ma i dispersi sono ancora 384 tra le montagne. Un milione di bambini nepalesi (30mila classi distrutte; 15350 danneggiate) sono stati costretti a lasciare le scuole colpite dalle scosse sismiche, sul totale di otto milioni di cittadini travolti dalla tragedia. I bambini nepalesi malnutriti sono 404mila. Oltre 2,8 milioni di persone, che vivono negli 11 distretti più gravemente danneggiati, hanno ricevuto l’assistenza dal Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP). Un mese dopo, solo 14mila bambini, sempre a rischio “tratta” come tutti gli altri più bisognosi, sono tornati a scuola in tende ed edifici di emergenza. Si stimano danni per miliardi di euro. L’Onu (www.wfp.org/countries/nepal) ha lanciato subito l’allarme per coordinare i soccorsi e la raccolta dei fondi. I Warlords potrebbero rinunciare ai loro progetti di guerra e morte, per salvare il Nepal. È stata istituita una Piattaforma Informatica di Emergenza (http://un.org.np/) per aiutare l’infanzia nepalese. Il premier Sushil Koirala aveva annunziato di temere oltre 10mila vittime. Decine di morti si registrano anche in Cina e India. L’ennesima significativa scossa di magnitudo 5.3, ad una profondità di circa 10 chilometri, ha scosso la vallata di Kathmandu solo pochi giorni fa. Il movimento tellurico segue i violentissimi terremoti di Aprile-Maggio, e le successive scosse, sempre molto violente, aggraveranno con le frane il bilancio definitivo. Anche il numero degli sfollati è altissimo perché oltre due milioni di persone hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni e sistemarsi in alloggi di fortuna. Finora sono stati raccolti 422 milioni di dollari per la Prima Emergenza a 2,8 milioni di nepalesi bisognosi di assistenza umanitaria immediata. Il Rapporto preliminare sulla catastrofe sismica del Nepal, redatto dalle Nazioni Unite, parla chiaro anche se un bilancio definitivo sembra ancora prematuro (http://un.org.np/sites/default/files/flash_appeal_revised_11_june.pdf) perché sono numerose le comunità completamente isolate a causa delle frane e dei crolli di strade e ponti. Drammatico è il problema dei senzatetto visto che in molti villaggi la percentuale di case distrutte è altissima. In Nepal l’emergenza è totale per 8 milioni di persone: mancano acqua, viveri, energia elettrica, medicinali e mezzi di soccorso. Tra i numerosi italiani presenti nel Paese si contano quattro morti, gli alpinisti trentini Renzo Benedetti di Segonzano e di Marco Pjer di Grumes, in val di Cembra, travolti da una frana mentre facevano trekking nella valle di Rolwaling. Morti anche due degli speleologi a lungo dati per dispersi nella zona di Langtang: Oscar Piazza e Gigliola Mancinelli sono rimasti sepolti dal crollo della struttura dove alloggiavano. Si sono salvati invece i compagni di viaggio Giuseppe Antonini e Giovanni Pizzorini sopravvissuti alla valanga di roccia, detriti e neve che ha investito il villaggio circa quaranta chilometri a nord di Kathmandu, ai piedi dell’Himalaya. Il crollo della Torre di Dharahara, che da 183 anni svetta sulla città di Kathmandu, con i suoi 200 morti è diventato il simbolo della distruzione che ha colpito il Nepal. La Torre di Guardia del XIX secolo è un’icona della civiltà nepalese ma altri siti, parte del ben più antico patrimonio culturale e religioso del Paese, sono stati distrutti o gravemente danneggiati dai terremoti. Il Nepal occupa un’area montuosa grande la metà del territorio italiano ma ospita otto siti che fanno parte del Patrimonio Unesco dell’Umanità. Tra questi vi sono le tre città reali, vari siti Indù e Buddhisti nella Valle di Kathmandu, e Lumbini, il leggendario luogo di nascita del Buddha. Tutti si trovano nell’area colpita dai terremoti avvertiti anche in Cina, India, Pakistan e Bangladesh. Molti di questi monumenti erano già stati danneggiati dal sisma di magnitudo 8.1 che colpì la regione nel 1934 e in seguito ricostruiti, a testimonianza dell’importanza che rivestono per i Nepalesi e il milione e mezzo di Indù e Buddhisti di tutto il Mondo. In Nepal le comunicazioni, soprattutto nelle aree montuose e isolate in cui si trovano molti dei monumenti nazionali, sono limitate o del tutto assenti. I devastanti terremoti che hanno colpito il Tetto del Mondo possono aver causato dei cambiamenti permanenti sia al campo magnetico sia alla superficie della Terra, ridisegnando l’Everest. Un team di geologi, già al lavoro per studiare il fenomeno e recuperare i dati da una stazione Gps vicina alla montagna, come spiega Kenneth Hudnut, geofisico dell’USGS, è consapevole del fatto che trascorsi i canonici 11 giorni previsti, la stazione inizierà a registrare nuovi dati che andranno a sovrascrivere quelli relativi al terremoto, cancellando le informazioni più dettagliate sugli spostamenti 3D del sensore. Così i geologi hanno unito gli sforzi su più fronti, cercando di raccogliere i fondi per noleggiare un elicottero e così portare a termine la missione in parallelo agli aiuti umanitari in programma. Nel frattempo Hudnut e colleghi hanno iniziato ad analizzare i dati sismici e da satellite relativi al terremoto di Sabato 25 Aprile 2015, la cui esatta magnitudo è stata stimata in 7.9 della scala Richter, per comprendere meglio il fenomeno e il rischio di futuri eventi sismici. I modelli preliminari che hanno elaborato, ancora da perfezionare, suggeriscono che il monte Everest e l’area circostante si siano spostati di qualche centimetro sia in verticale sia in orizzontale. Una scoperta che si affianca alle stime di James Jackson, geologo della Cambridge University in UK. Per quanto riguarda il monte Everest “lo spostamento in verticale sembrerebbe essere stato di meno di dieci centimetri, al pari di quello in orizzontale – osserva Jackson – un altro punto sembra invece essersi spostato di due centimetri verso nord, di uno ad est, ed essere rimasto invariato in verticale. Si trova in Tibet, 200 chilometri ad est rispetto all’epicentro del terremoto, e potrebbe aver sperimentato lo stesso cambiamento osservato sul monte Everest. Per poter dare un’occhiata più da vicino, Hudnut spera di poter recuperare i dati dalla stazione SYBC situata a meno di 30 Km dalla vetta dell’Everest. Poiché non trasmetteva dati, proprio a causa del sisma, gli scienziati dovevano recarvisi di persona in elicottero e scaricarli direttamente, ovvero ottenere nuove informazioni da una nuova spedizione sulla cima della montagna, tutti forniti di Gps di alta qualità. “Non stiamo solo cercando di capire se l’Everest sia andato in su o in giù, ma se è successo a tutto il pianeta Terra – rivela Hudnut – e quale sia il fenomeno dietro questo terremoto. Ad esempio vorremmo scoprire se il sisma abbia portato ulteriore tensione sulle faglie di quell’area, il che potrebbe significare nuovi sismi in futuro”. La città di Kathmandu, più vicina all’epicentro rispetto all’Everest, gravemente danneggiata, pare essersi spostata addirittura di un metro. Secondo Jackson i movimenti delle rocce lungo la faglia vicina alla città potrebbero aver raggiunto i tre metri. Ma questo non significa che la città si sia semplicemente spostata, perché la crosta terrestre si deforma in modi complessi e incostanti. Potrebbe invece significare che le parti di sottosuolo circostanti la città, o quelle nei dintorni, si siano allontanate o avvicinate tra loro. Interrogato sulla possibilità che una nuova altezza per l’Everest significhi dover rimettere mano a tutte le mappe del National Geographic, il geografo Juan Valdés conferma l’intenzione di monitorare la situazione con grande attenzione. “La National Geographic Society non si affida a un’unica agenzia scientifica come fonte di dati – spiega Valdés – ma fa una revisione dei set di dati compilati dal maggior numero possibile di fonti. Nel caso specifico dell’Everest parliamo di agenzie in Cina, Nepal, Europa e molte altre. È già capitato che i terremoti portassero a delle modifiche sulle mappe di National Geographic, dai movimenti causati dai sismi fino alle nuove isole create dai vulcani. I movimenti riscontrati a Kathmandu difficilmente si faranno vedere tra le mappe della società, mentre per quanto riguarda l’Everest è troppo presto per dirlo con certezza”. L’ultimo cambiamento significativo che Valdés ricordi nell’altezza di una montagna risale al Gennaio 2014, quando uno scioglimento dei ghiacci in Nuova Zelanda ha fatto passare il monte Cook da un’altezza di 3.754 metri a 3.724 sul livello del mare. Una differenza di 30 metri, sicuramente significativa nella Terra di Mezzo de “Il Signore degli Anelli” e de “Lo Hobbit” di Peter Jackson. “Il semplice fatto che la vetta più alta del mondo possa muoversi – rivela Valdés – è la prova di quanto sia dinamico il nostro pianeta Terra”. In verità, per comprendere in che rapporto sia il forte aftershock del 12 Maggio rispetto alla faglia attivata il 25 Aprile 2015, pare ragionevole e utile presentare i risultati di uno studio condotto dai ricercatori dell’Ingv per determinare un modello di faglia della zona. Sono stati utilizzati i dati dello spostamento del terreno durante il terremoto del 25 Aprile ottenuti da diversi satelliti. La faglia “estratta” dal modello si estende per circa 180 Km da ovest verso est, e per circa 130 km (in senso nord-sud) dalla superficie a una profondità di 18 Km al di sotto della Catena Himalayana. La distribuzione del movimento sul piano di faglia risulta molto eterogenea, con un massimo di quasi 6 metri di spostamento tra i due lati della faglia. Il momento sismico calcolato è pari a 6.82 elevato alla 20ma potenza in Nm e la corrispondente magnitudo momento Mw risulta 7.86 Richter. La faglia attivata il 25 Aprile è il contatto tra la Placca indiana che si infila sotto quella euroasiatica con una debole pendenza di circa dieci gradi verso nord. Il suo bordo meridionale coincide con il limite di tale contatto mappato in superficie dai geologi (Main Himalayan Thrust). La faglia si immerge verso nord al di sotto della Catena montuosa ed è caratterizzata da uno spostamento co-sismico molto irregolare: si passa da circa 6 metri nella zona centrale, a nord di Kathmandu, a valori di 1-2 metri verso i bordi. La replica del 12 Maggio 2015 si localizza all’estremità nordorientale della faglia del 25 Aprile, in una zona che aveva avuto uno spostamento modesto durante l’evento principale. Anche le forti repliche delle ore successive sono localizzate nella stessa area della faglia. È quindi ragionevole interpretare il terremoto di magnitudo 7.3 del 12 Maggio come una replica (aftershock) del terremoto del 25 Aprile, che ha contribuito a rilasciare parte della deformazione accumulata e non rilasciata con l’evento principale. Il terremoto di M 7.3 è pari a circa un sesto di quello di M 7.86 in termini di energia rilasciata. Subito dopo il sisma del 25 Aprile la comunità internazionale di Scienze della Terra ha iniziato a produrre e distribuire i risultati delle analisi geologiche, sismotettoniche, geodetiche effettuate. L’Ingv si è attivato per studiare il campo di spostamento superficiale e le caratteristiche della faglia che lo ha generato: utilizzando l’interferometria differenziale SAR e i dati Gps è stato possibile quantificare lo spostamento misurato al suolo e relativo al terremoto principale occorso nel centro del Nepal, alla base della Catena Himalayana. Il sistema Cosmo-SkyMed è stato tempestivamente attivato per garantire il necessario supporto alle popolazioni e alle autorità governative dei Paesi interessati dal devastante evento sismico. L’intero archivio dati della Missione è stato messo a disposizione dell’utenza istituzionale internazionale. Si è inoltre proceduto alla immediata pianificazione di nuove acquisizioni sulle aree geografiche colpite, in modo da rendere possibili le analisi di dettaglio necessarie alla valutazione dei danni subiti. Unosat (United Nations Operational Satellite Applications Programme, in italiano Osnu) e Nasa hanno richiesto di poter utilizzare le serie interferometriche presenti nell’archivio Cosmo-SkyMed poche ore dopo il sisma. L’Agenzia spaziale Usa ha richiesto 330 immagini di archivio, che sono state prontamente messe a disposizione nell’ambito delle attività di cooperazione Asi-Nasa-Jpl. La presenza nell’archivio Cosmo-SkyMed di un numero così elevato di immagini acquisite sulla città di Kathmandu e sulle limitrofe aree geografiche di interesse, è stato reso possibile da uno specifico Progetto di “Background Mission”, attivato dall’Agenzia Spaziale Italiana in cooperazione con il provider commerciale e-GEOS. Si tratta di un programma finalizzato a popolare in modo periodico e continuativo un archivio dati in modalità interferometrica, utile per applicazioni di gestione di emergenze sismiche, vulcaniche e simili su aree geografiche (nel dettaglio, metropolitane) nazionali e internazionali caratterizzate da elevato livello di rischio. Come nel caso del Nepal. Le immagini mostrano la mappa dei danni relativa alla regione più duramente colpita dal violento terremoto del 25 Aprile (40×50 Km), definita tecnicamente Damage Proxy Map (DPM). Copre la regione attorno a Kathmandu ed è stata processata dal team ARIA (Advanced Rapid Imaging and Analysis) e dal Caltech utilizzando i dati radar SAR interferometrici forniti dalla costellazione di satelliti Cosmo-SkyMed. La tecnica utilizzata si basa su un algoritmo prototipale che individua rapidamente i cambiamenti della superficie terrestre causati da danni naturali o prodotti dall’uomo ed il criterio di valutazione dei danni è più sensibile alla distruzione delle aree edificate. Quando il radar illumine dalo spazio zone quasi per nulla distrutte, i pixel dell’immagine risultano trasparenti. Al contrario, l’accresciuta opacità dei pixel indica la presenza di danni, con le aree in rosso che corrispondono ai danni più ingenti riscontrati nelle aree cittadine. La variazione di colore dal giallo al rosso sta ad indicare un cambiamento sempre più significativo della superficie. L’arco temporale a cui tali cambiamenti si riferiscono va dal 24 Novembre 2014 al 29 Aprile 2015. L’immagine in prospettiva mostra invece la mappa dei danni sovrapposta al terreno con la posizione degli edifici danneggiati come identificati da una valutazione preliminare dei danni, realizzata dall’Agenzia americana NGA (National Geospatial-Intelligence Agency) e UNITAR-UNOSAT in collaborazione con la US Geological Survey e l’Università della Basilicata, che sono evidenziati dai punti rossi e viola. Le mappe mostrate sono state fornite ai soccorritori in Nepal per fornire aiuto e supporto durante la fase post-sismica. A tal fine sono stati usati i dati di differenti satelliti disponibili e sono state elaborate all’Ingv due immagini SAR acquisite dal sensore radar in banda C a bordo della missione satellitare Sentinel-1 dell’Agenzia Spaziale Europea. Le due foto, acquisite in orbita discendente, sono datate 17 e 29 Aprile, quest’ultima solo quattro giorni dopo l’evento principale. Grazie all’innovativa modalità di acquisizione di Sentinel-1, il TOPSAR mode, nonostante la grande estensione dell’area colpita, è stato possibile generare con un solo interferogramma la quasi totalità del campo di spostamento del suolo causato dal movimento della crosta terrestre lungo la faglia. L’interferogramma arrotolato evidenzia l’elevato numero di frange (circa 34) visibili in una vasta area intorno a Kathmandu. Ogni frangia è rappresentata da un ciclo di colore rosso-blu e per il sensore Sentinel-1, operante in banda di frequenza C, rappresenta una variazione della distanza sensore-bersaglio pari a metà della sua lunghezza d’onda, in questo caso pari a 2.8 centimetri. Per una migliore comprensione lo stesso interferogramma arrotolato è mostrato in modo che ciascuna frangia corrisponda a 12.5 cm di spostamento. Il passaggio finale nel processamento di immagini SAR interferometriche consiste nel cosiddetto srotolamento, cioè nel calcolo del numero di frange presenti nell’interferogramma, per poi convertire i valori di fase così ottenuti nello spostamento continuo effettivo del suolo espresso in metri. La mappa di spostamento così ottenuta mostra che il massimo di deformazione (area rossa) supera 1.2 metri, lungo la linea di vista del SAR, a 39.5 gradi dalla verticale. Un marcato abbassamento del suolo, con un massimo di circa meno 40 centimetri, è invece visibile nella zona subito a nord della zona in sollevamento (area blu). Sfortunatamente, la parziale sovrapposizione della coppia di immagini Sentinel-1 a disposizione non ha consentito di mappare il campo di deformazione nella zona più a nord-est dall’epicentro. Il campo di spostamento misurato è in accordo con lo spostamento atteso dal meccanismo di sorgente e dalla posizione della zona in subduzione. L’asimmetria del campo di spostamento stesso rispetto alla posizione dell’epicentro indica la rottura del piano di faglia che si immerge a basso angolo sotto la Catena Himalayana, partita da ovest e propagatasi verso est per oltre 150 Km, come confermato dall’inversione di tutti i dati congiunti dei tre interferogrammi Radarsat2, Also e Sentinel e dei Gps. La Catena Himalayana è nota per la sua attività sismica ed è considerata una delle regioni a più alto rischio sulla Terra. L’attività sismica è causata dalla convergenza tra la Placca indiana, a sud, e la Placca euro-asiatica a nord, che ha determinato la formazione della Catena dell’Himalaya. Il movimento relativo tra le due Placche è di 45 millimetri per anno, di cui si stima che quasi due centimetri per anno vengano accumulati lungo il margine meridionale della Catena montuosa. Questo significa che ogni 100 anni si accumula una deformazione pari a 2 metri di spostamento relativo tra le due Placche. Nell’area colpita dal terremoto del 2015 non ci sono stati forti eventi sismici da diversi secoli. Per questo motivo la zona intorno alla capitale Kathmandu era considerata un “gap sismico”. Risulta pertanto evidente il potenziale sismico di tutta la fascia di contatto tra la Placca indiana e quella eurasiatica: per ciascun settore, la quantità di spostamento in metri che si può verificare con un terremoto, è enorme. Nel caso della zona colpita dal terremoto odierno si stimavano movimenti co-sismici tra 4 e 10 metri. La zona subito ad est di quella colpita oggi, era stata interessata da un terremoto di magnitudo superiore a 8 Richter nel 1934, l’epoca del famoso archeologo Indiana Jones. Lo schema geologico mostra come la Placca indiana scivoli sotto quella eurasiatica creando l’innalzamento dell’Himalaya. La porzione del contatto tra le placche indicata come “locked” (bloccata) è quella che rimane ferma, per secoli, nel periodo inter-sismico e che si muove improvvisamente quando viene superata la resistenza della faglia: in quel momento avviene un terremoto che ristabilisce momentaneamente l’equilibrio geologico. È noto che i terremoti della fascia pedemontana dell’Himalaya sono dovuti al movimento della Placca indiana verso nord, iniziato decine di milioni di anni fa. Dopo che l’oceano che separava la Placca indiana e quella euro-asiatica è scomparso al di sotto della seconda nel processo di subduzione, con la conseguente formazione della Catena Himalayana, le due Placche continentali si sono scontrate e oggi continuano a fronteggiarsi. Attualmente la Placca indiana si muove verso nord a una velocità di circa 45 millimetri all’anno, infilandosi sotto la catena montuosa e contribuendo così al suo innalzamento. Il movimento geologico è lento ma la deformazione che si accumula anno dopo anno lungo le faglie che bordano la catena montuosa, viene rilasciato a scatti quando la resistenza delle faglie stesse viene superata. Ogni scatto è un terremoto catastrofico. Fortunatamente questo sistema di faglie, lungo circa 2000 Km, è segmentato. Ciò comporta che esso si attivi generalmente per tratti estesi da qualche decina a qualche centinaio di chilometri, corrispondenti a terremoti di magnitudo compresa tra 7.5 e 8.5 Richter. Altrimenti le energie rilasciate sarebbero maggiori. Per il terremoto del 25 Aprile 2015, l’U.S. Geological Survey stima preliminarmente che la faglia si estenda parallelamente al fronte della Catena per 150 Km, principalmente dall’epicentro verso sudest. La zona con lo spostamento più significativo sembra estendersi però per circa 100 Km. Ma osservando il meccanismo focale si nota che l’inclinazione di questo piano di faglia è molto bassa verso nord-est. Il modello dell’USGS va considerato come preliminare essendo basato sui dati delle reti sismologiche mondiali. Gli spostamenti maggiori lungo il piano di faglia non superano i 3-4 metri e che le repliche più forti sono avvenute a sudest della scossa principale. “Io personalmente sono terrorizzata. Mi sono occupata delle conseguenze di alcuni dei più forti terremoti nel mondo (Haiti, Bam, Kashmir e Gujarat) ma questo sarà molto peggio – dichiarava Moira Reddick, sismologa e coordinatrice del Nepal Risk Reduction Consortium di Kathmandu, il 28 Luglio del 2014 – ho un kit d’emergenza in fondo al mio giardino: una vanga per disseppellire le persone, acqua, cibo in scatola, una radio a batterie e altri oggetti di prima necessità. Gli altri pensano che sia pazza, ma io mi sto organizzando per ospitare fino a trenta persone in giardino”. Alcuni sismologi nepalesi, tra cui Moira Reddick, che da tempo monitoravano il sistema di faglie esistenti tra la Placca tettonica euroasiatica e la Placca tettonica Indiana, già da alcuni anni avevano previsto la possibilità di una scossa con un grado di magnitudo molto elevato, avvertendo le istituzioni locali e mondiali della possibilità di ingenti danni. Amod Mani Dixit aveva denunciato come più del 60 percento degli edifici costruiti nella valle di Kathmandu, in caso di forte sisma, fossero a rischio crollo perché edificati senza il rispetto di criteri antisimici. Il terremoto del 25 Aprile ha generato un’onda di energia che si è propagata nell’atmosfera superiore della Terra, al di sopra del Nepal, disturbando la distribuzione degli elettroni nella ionosfera, tra i 60 e i 1000 Km al di sopra della superficie terrestre. I disturbi sono stati registrati dai satelliti Gps che orbitano al di sopra del Nepal nel momento del sisma: i segnali di disturbo sono stati inviati alla stazione Gps di Lhasa, in Tibet (Cina). Per misurare il fenomeno la Nasa ha messo a punto un sistema noto come Vtec (Vertical electron content) in grado di registrare nell’alta atmosfera i disturbi prodotti dalla distribuzione degli elettroni nella ionosfera. Le onde di disturbo sono arrivate a intervalli compresi tra 2 e 8 minuti. Un simile rilevamento oltre ad offrire un’immagine migliore della potenza del sisma, che come un maglio planetario ha fatto sobbalzare l’atmosfera, può essere molto utile a due ricerche di tipo diverso: sia per studiare la ionosfera, in quanto ogni sua alterazione interna permette di conoscere meglio le sue caratteristiche; sia per mettere a punto un sistema di Allerta Tsunami realmente fruibile. Se terremoti potenti come quello del Nepal avvengono vicino alle coste, possono causare tsunami di notevole intensità come negli eventi del Giappone (2011) e di Sumatra (2004). Avere un sistema di rilevamento delle variazioni atmosferiche è fondamentale per cercare di definire in breve tempo l’intensità del sisma e l’entità del possibile tsunami. In Nepal, negli ultimi 100 anni, quattro eventi di magnitudo 6 o superiore si sono verificati entro i 250 Km dall’epicento del sisma del 25 Aprile: uno di M 6.9 nell’Agosto 1988, 240 Km a sudest, causò 1500 vittime. Il più devastante di M 8, noto come il terremoto di Nepal-Bihar, nel 1934 ruppe una larga sezione del settore di faglia ad est, nella stessa zona del sisma del 1988, distruggendo Kathmandu e mietendo 10600 vittime. Nel XIX Secolo, il forte terremoto del 1833 si pensa abbia causato le medesime rotture di faglia del 2015. Si registrano poi gli eventi di Kandra nel 1905 (M 7.5) e del Kashmir nel 2005 (M 7.6). I più catastrofici in termini di perdita di vite umane, perchè insieme uccisero oltre 100mila persone con un milione di senzatetto. Il più potente terremoto mai registrato sull’Himalaya si verificò il 15 Agosto 1950 a Assam, nell’India orientale. Fu di magnitudo 8.6, laterale-destro, frutto uno strappo di faglia molto esteso, avvertito in tutta l’Asia centrale. Incalcolabile fu il numero delle vittime e dei danni. Nel 1505 un segmento della faglia Chaman vicina a Kabul, in Afghanistan, provocò un’estesa distruzione della regione. La stessa che il 30 Maggio 1935 originò il sisma di Quetta (M 7.6) nel Sulaiman Range del Pakistan, uccidendo tra le 30mila e le 60mila persone. Il terremoto (M 7.4) di Sarez sulle montagne del Pamir Centrale, il 18 Febbraio 1911 uccise centinaia di persone e ridisegnò l’orografia della zona. Una frana bloccò il fiume Murghab. A nord, il Tian Shan è sismicamente attivo per 2500 Km. I tre maggiori terremoti di magnitudo maggiore al grado 7.6, all’inizio del XX Secolo, con l’evento di Atushi nel 1902, uccisero almeno 5mila persone. Nel Plateau Tibetano i tre sistemi di faglie Altyn Tagh, Kunlun e Haiyuan sono in grado di produrre eventi di magnitudo compresa tra 7 e 8. La faglia Kunlun, a sud della Altyn, l’8 Novembre 1997 generò il terremoto (M 7.6) di Manyi e, il 14 Novembre 2001, l’evento di M 7.8 a Kokoxili. La faglia Haiyuan Fault, nel lontano nordest, il 16 Dicembre 1920 generò il catastrofico terremoto di M 7.8 che uccise almeno 200mila persone e, il 22 Maggio 1927, l’evento di M 7.6 che mandò al Creatore 40912 tibetani. Non meno pericoloso è il Longmen Shan thrust, lungo il margine orientale del Plateau Tibetano, tra il Songpan-Garze Fold Belt e il Sichuan Basin. Il 12 Maggio 2008 con un improvviso scatto produsse il sisma (M 7.9) di Wenchuan, uccidendo oltre 87mila persone, causando danni per miliardi di euro e ridisegnando le mappe. A sudest del Plateau Tibetano insistono i sistemi di faglie Red River e Xiangshuihe-Xiaojiang. La Red River ha prodotto molti sismi di forte magnitudo, incluso l’evento del 4 Gennaio 1970 (M 7.5) di Tonghai che uccise oltre 10mila persone. Dall’inizio del XX Secolo, il sistema di faglia Xiangshuihe-Xiaojiang ha liberato molti terremoti di grado Richter superiore a 7, compreso il sisma (M 7.5) di Luhuo del 22 Aprile 1973. Anche qui i gap sismici abbondano secondo la letteratura scientifica. Alcuni studi suggeriscono che a causa dell’alto tasso di accumulo di energia su questa faglia, futuri terremoti catastrofici sono altamete probabili lungo i 65 Km di “fronte” compreso tra Daofu e Qianning e lungo i 135 Km verso Kangding. I danni ingenti della capital nepalese sono legati certamente alla notevole energia del terremoto (10 volte più forte del sisma di Reggio Calabria e Messina nel 1908) ma anche alla posizione della faglia che arriva proprio sotto la città, alla sua scarsa profondità, alla direttività della rottura verso la capitale e alle caratteristiche geologiche dell’area: Kathmandu è costruita su sedimenti di un antico lago, che determinano l’amplificazione dello scuotimento sismico. Quindi il potenziale energetico del Nepal è ancora elevato. Come atteso anche dall’USGS si stanno verificando terremoti di magnitudo maggiore o eguale al quinto grado Richter. L’USGS stimava una probabilità del 54 percento di avere sismi di magnitudo superiore a 6 e del 7 percento che si verificasse un terremoto di magnitudo maggiore o eguale a 7 durante la prima settimana. Nei prossimi mesi e anni, l’USGS si aspetta parecchie repliche superiori al quindo grado, con probabilità significative maggiori del 50 percento che si verifichino eventi di magnitudo superiore a 6. La probabilità che si verifichi una replica più forte dell’evento di magnitudo 7.9 non è nulla. Ma è comunque molto bassa, circa dell’uno o del due percento. I terremoti risentiti dalla popolazione nepalese, cioè quelli di magnitudo eguale o superiore ai gradi 3 e 4, saranno probabilmente molto frequenti nei primi mesi. Da semplici analisi statistiche, il numero atteso di terremoti di magnitudo 3 o 4 può essere stimato moltiplicando il numero di repliche di magnitudo 5 per 100 ovvero 10, rispettivamente. Le localizzazioni delle possibili repliche saranno nella zona attualmente interessata dalla sismicità e ai suoi bordi, anche se non si può escludere l’attivazione di faglie adiacenti. Alle ore 11 GMT del 27 Aprile 2015, erano 50 i terremoti di magnitudo eguale o superiore al quarto grado, di cui solo due hanno avuto magnitudo superiore a 6. Ossia l’evento di M 6.6 avvenuto 44 minuti dopo il terremoto più forte e il M 6.7 verificatosi il giorno dopo. Mentre arrivano le notizie sugli aiuti umanitari in corso grazie alle Nazioni Unite della Terra e sullo stato dell’antico patrimonio culturale e religioso del Tetto del Mondo da ricostruire, la Scienza è chiamata a valorizzare e promuovere l’importanza della responsabilità e della libertà intellettuale. Come insegna la Chiesa Cattolica da sempre, ben prima delle massonerie mondiali. Promuovere il liberalismo, contribuendo all’elaborazione di proposte scientifiche su società civile, politica, spazio e imprenditoria, finalizzate a suscitare occasioni di confronto tra esponenti del mondo accademico ed imprenditoriale che arricchiscono il dibattito culturale, contribuendo al reale processo di trasformazione della società, è il più nobile compito della Scienza galileiana. Valorizzare gli ideali di libertà e sovranità rientra perfettamente tra le sue vocazioni. La Scienza fondata dal cattolico Galileo Galilei che eppur credeva, infatti, offre la possibilità di trascendere i confini del reale per immaginare mondi fantastici che poi, con la tecnologia e gli esperimenti, diventano mondi veri superando ogni limite e ogni catastrofe. A 74 mesi dal terremoto di L’Aquila (Mw 6.3; 312 morti; 6mila feriti) del 6 Aprile 2009, capire cosa avviene durante la fase che precede i grandi eventi sismici attraverso i dati rilevati da satellite e da terra, può salvare milioni di vite umane. È la natura del progetto “Swarm for earthquake study” coordinato dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia con la collaborazione di Planetek Italia. Lo studio è finanziato dall’Agenzia Spaziale Europea. I terremoti sono tra i fenomeni naturali più potenti e devastanti che avvengono sulla Terra in termini di perdite di vite e di danni materiali. Nel Mondo, solo nell’ultimo secolo, oltre tre milioni di vittime sono state provocate dagli effetti degli eventi sismici combinati alla corruzione politica dilagante sul territorio. Nonostante i numerosi studi e l’imponente mole di dati elaborati in diversi decennia, abbiano permesso di migliorare la conoscenza dei fenomeni fisici che avvengono prima, durante e dopo un terremoto, e la Prevenzione con la Giustizia rimangano le uniche azioni utili e necessarie in grado di mitigarne gli effetti in tutto il Mondo, molto si potrebbe ancora fare per comprendere meglio la natura dei fenomeni preparatori di un sisma. Studiare cosa avviene durante la fase che precede i grandi eventi sismici e individuare eventuali segnali elettromagnetici dallo spazio, sono i principali obiettivi del progetto “Swarm for earthquake study” (Safe). La ricerca della durata di 16 mesi “intende studiare la fase preparatoria di grandi eventi sismici attraverso l’analisi di dati elettromagnetici provenienti dai sensori a bordo dei tre satelliti della costellazione Swarm dell’Esa, per comprendere meglio i meccanismi fisici coinvolti”, spiega Angelo De Santis dell’Ingv, coordinatore dello studio. Safe si configura come un’applicazione innovativa della missione satellitare Swarm, inizialmente progettata e realizzata dall’Esa per fornire dati utili all’avanzamento delle attuali conoscenze delle proprietà elettromagnetiche della Terra. “L’approccio utilizzato è quello olistico della geosistemica – osserva De Santis – per la quale il pianeta Terra è considerato un unico grande Sistema in cui ogni singolo fenomeno è il prodotto dell’interazione delle parti che lo costituiscono sotto forma di trasferimento di particelle e/o di energia. In particolare, il progetto Safe si propone lo studio dell’accoppiamento tra la parte più esterna della Terra solida, la Litosfera, dove avvengono i terremoti, e la parte fluida sovrastante, l’Atmosfera”. L’obiettivo è di catturare le informazioni scambiate tra i due strati attraverso l’integrazione dei dati acquisiti dai satelliti Swarm con quelli raccolti da altri satelliti e da stazioni di misura poste a terra. “Per farlo – rivela Cristoforo Abbattista, responsabile della Business Unit Space Systems di Planetek Italia – è necessario organizzare e fondere i dati osservatori orbitali con quelli da terra per estrarre in tal modo le informazioni necessarie alla suddetta analisi”. La combinazione dei dati potrebbe fornire un ampio quadro geofisico in grado di migliorare le attuali conoscenze della fisica dei terremoti e dei loro processi di preparazione rilevabili dallo spazio. “Per raggiungere i risultati attesi e garantirne la massima diffusion – spiega Lucilla Alfonsi dell’Ingv – concorrono alla ricerca esperti in sismologia, fisica dell’alta atmosfera, geomagnetismo ed elaborazione dati satellitari”. Magari grazie anche alle misure effettuate dal drone shuttle statunitense Boeing X-37, costantemente monitorato dalla Russia, in grado di orbitare come più si conviene per acquisire ogni genere di informazioni sulla Terra. E in Italia non si scherza affatto. Il 16 Aprile 1558 un anonimo autore di “avvisi”, gli antesignani dei moderni giornalisti, scriveva da Firenze: “Qua è stato un gran[dissi]mo terremoto, che ha ruinato di molte case, et conquassato chiese con morte d’alcune persone et è stato tanto horrendo che ha posto spavento ad ogni persona”. I danni causati dal terremoto di cui parla l’anonimo non si erano verificati a Firenze ma nelle colline del Chianti e oltre, nel Valdarno e in Valdambra. Di questo fatto, però, nessuno era consapevole fino a pochi anni fa. L’esistenza del terremoto del 1558 era nota fin dal Settecento alle compilazioni descrittive di terremoti toscani, ma le uniche fonti di questa conoscenza erano le scarse notizie fornite da due diaristi coevi, il canonico Agostino Lapini di Firenze e la monaca senese suor Girolama Caterina Bocciardi, di Santa Romana Chiesa. I quali si limitavano a descriverne gli effetti a Siena (“danni non molto gravi ma diffusi”), a Firenze (“avvertimento”) e nell’area compresa tra le due città. Per quanto da queste testimonianze risultasse evidente che i maggiori effetti del terremoto si erano verificati appunto in quest’area, le definizioni usate dai testimoni (“contadi di Siena e Fiorenza”, “Val d’Arno di sopra e Chianti”) erano troppo vaghe per consentirne una precisa localizzazione epicentrale o perlomeno un’attendibile valutazione degli effetti. In mancanza di informazioni più precise, fino al 2004 l’epicentro del terremoto era stato individuato nelle vicinanze di Siena, una delle località maggiormente danneggiate. È stato grazie a una di quelle fortunate scoperte casuali che a volte capitano allo studioso in archivi e biblioteche, che si è riusciti a ricollocare il terremoto del 1558 nel suo autentico contesto e, al tempo stesso, ad arricchire la storia sismica dell’area toscana compresa tra Siena e Firenze che occupa un posto di riguardo nel contesto dell’economia e del patrimonio culturale italiano. Ma la cui sismicità è sporadica, di modesta entità e concentrata soprattutto nel settore nord del Valdarno Superiore e nelle colline del Chianti. La storia sismica di questa zona non risale più indietro del 1770, anno del primo terremoto sicuramente localizzato in tale area e relativamente ben conosciuto. A partire da considerazioni storiche basate sull’estrema specificità del contesto socio-politico e amministrativo in cui s’inquadra il terremoto del 1558 è stato avviato all’Archivio di Stato di Firenze un sondaggio che ha portato a individuare una trentina tra rapporti sugli effetti del terremoto, deliberazioni prese per affrontarne le conseguenze, suppliche e una dettagliatissima perizia dei danni relativa alla località di Caposelvi, in Valdambra. Era da poco terminata la “guerra di Siena” e la città del Palio, dopo un lungo e durissimo assedio, era appena entrata a far parte parte dei dominii di Cosimo I de’ Medici, duca di Firenze. I dati raccolti, tutti prodotti da ufficiali di governo al servizio del duca, hanno permesso di ricostruire una breve sequenza sismica cominciata, alle 10:15 circa del mattino del 13 Aprile 1558, con una scossa descritta come lunga “un Credo” (circa 40 secondi) e che causò crolli e danni gravissimi in Valdambra e sul versante orientale delle colline del Chianti. Siena e le principali località del Valdarno Superiore subirono danni minori ma molto diffusi. L’evento fu avvertito fortemente a Colle di Val d’Elsa e Firenze. Alle 16 circa del 13 Aprile una replica piuttosto forte fu avvertita a Siena e San Giovanni Valdarno. Nuove piccole scosse furono avvertite a Siena tra le ore 5 e le 6 del 14 Aprile 1558. Le maggiori distruzioni avvennero in Valdambra: a Caposelvi 40 case su un totale di 85 crollarono completamente, 9 rimasero del tutto inabitabili, le altre furono gravemente danneggiate e nella piazza principale si aprì una fenditura lunga circa 17 metri. Bucine, Ambra e Badia Agnano subirono danni molto gravi. Ci furono due vittime ad Ambra e quattro a Caposelvi. Danni quasi altrettanto gravi si ebbero nel Chianti, a Gaiole in Chianti, Meleto e Castagnoli. A Castelnuovo Berardenga crollò il palazzo comunale. San Giovanni Valdarno e Montevarchi soffrirono danni quasi paragonabili a quelli di Siena (VII-VIII MCS). A Brolio, che anche allora evidentemente era nota per la sua produzione vinicola, il terremoto oltre a rendere “concie male l’habitationi” portò anche lo sconquasso nelle cantine della nobile famiglia Ricasoli dove, come ebbe a riferire al suo signore il maggiordomo del governatore di Siena,“li vini si sono tutti guasti”. A Siena subirono danni piuttosto estesi il Duomo e il palazzo Cerretani in Piazza del Campo e quasi tutte le case subirono lesioni più o meno gravi e un generalizzato crollo di camini. È probabile che ad accentuare gli effetti del terremoto abbia contribuito lo stato di estrema vulnerabilità in cui versavano gli edifici senesi, dopo i bombardamenti subiti per mesi durante l’assedio del 1554-1555. Secondo un documento del 1558, la città era a quell’epoca “multum desolata et devastata et fere deserta et inhabitata”. La rivalutazione dei parametri del terremoto del 13 Aprile 1558, effettuata dall’Ingv sulla base della nuova distribuzione degli effetti macrosismici ottenuta dai dati riscoperti nei documenti d’archivio contemporanei, ha permesso di assegnare all’evento, localizzato in Valdambra, un’intensità epicentrale pari al grado IX MCS e una magnitudo momento equivalente (Mw) pari a 5.8 Richter. Questi parametri fanno del terremoto del 13 Aprile 1558 il massimo evento sismico conosciuto per l’area della Valdambra e anche il responsabile delle maggiori intensità osservate nelle località di San Giovanni Valdarno, Montevarchi, Figline Valdarno e in gran parte dei paesi del Chianti. Anche ciò che non vede può far paura in Italia. Qual è lo stato di attività del Marsili, il più grande vulcano d’Europa e del Mediterraneo? È attivo? Esiste un pericolo tsunami legato al possibile distacco di una grande frana per collasso laterale? Qual è lo stato attuale delle conoscenze su questo vulcano? Ciò che gli scienziati sanno sul Marsili è legato a dati geofisici e campioni prelevati dalla sua sommità. In letteratura sappiamo che è interessato da un’attività idrotermale e sismica legata ad eventi di fratturazione superficiale e a degassamento. Sappiamo anche che esiste una zona centrale più “leggera” rispetto a quella di altri vulcani, come l’Etna. Questa zona è più leggera perché interessata da fratture e circolazione di fluidi idrotermali. Le due eruzioni più recenti hanno un’età di circa 5000 e 3000 anni fa: sono stati eventi a basso indice di esplosività e sono avvenute nel settore centrale dell’edificio a circa 850 metri di profondità da coni di scorie con raggio minore di 400 metri. In caso di eruzione sottomarina a profondità di 500-1000 metri sul Marsili, l’unico segno in superficie sarebbe l’acqua che bolle legata al degassamento e galleggiamento di materiale vulcanico (pomici) che rimarrebbe in sospensione per alcune settimane. Come accadde per l’eruzione del 10 Ottobre 2011 al largo dell’isola di El Hierro alle Canarie. Il rischio associato a possibili eruzioni sottomarine è quindi estremamente basso, e un’eruzione a profondità maggiore di 500 metri comporterebbe probabilmente soltanto una deviazione temporanea delle rotte navali. Tuttavia ancora non si conoscono i tempi di ritorno delle eruzioni del Marsili perché tali stime si basano su calcoli statistici in un gran numero di datazioni. Purtroppo per il Marsili ci sono solo quattro datazioni disponibili. In altre parole, è come se del Vesuvio conoscessimo solo le eruzioni del 1631 e del 1944, e dicessimo che i tempi di ritorno sono di 400 anni. Mentre, in realtà, l’attività del Vesuvio tra queste due date è stata pressoché continua. In termini di pericolosità legata alle eruzioni sottomarine, ai collassi laterali e a possibili tsunami associati, i dati a disposizione degli scienziati non consentono di fornire stime quantitative, ma alcune considerazioni preliminari possono essere giustificate. Il collasso laterale di vulcani sottomarini è un fenomeno conosciuto da tempo e, qualora si verificasse, non è detto che produca tsunami distruttivi. Che sono generalmente associati a terremoti e/o frane di isole vulcaniche o di settori della scarpata continentale. Per la valutazione dei collassi laterali dei vulcani sottomarini e della pericolosità di tali eventi è assolutamente prioritario effettuare una stima della stabilità dei versanti del vulcano, valutare il volume di roccia potenzialmente coinvolto, conoscerne le modalità di movimento lungo il pendio e, una volta noti tutti i parametri, verificare se il volume di roccia e la dinamica della frana sottomarina sono compatibili con l’innesco di uno tsunami catastrofico. Con pochissimi minuti di preavviso! Al momento attuale non vi sono studi quantitativi, scientificamente affidabili, inerenti le fenomenologie riportate per il vulcano Marsili. Ciò che si conosce è ancora poco rispetto a quanto sarebbe necessario conoscere, ma la morfologia del vulcano, secondo gli scienziati e i ricercatori Ingv, “non presenta evidenze di significativi collassi laterali di settore per gli ultimi 700mila anni di attività”. Vi sarebbero evidenze di “seafloor sliding” superficiali, il franamento del fondo marino, solo nel settore centrale del vulcano. Questi franamenti non producono tsunami perché coinvolgono volumi irrisori molto inferiori al chilometro cubo di roccia disgregata. Franamenti simili si verificano spesso sui conoidi sommersi davanti alla foce di fiumi o al tetto della scarpata continentale lungo canyon sottomarini. Nel record storico e geologico degli tsunami che hanno interessato le coste tirreniche non vi sarebbero evidenze di onde anomale ricollegabili a collassi laterali del Marsili. Non è però detto che nel futuro questi non si possano verificare. Quindi una valutazione della stabilità del Marsili deve essere fatta raccogliendo più dati possibili. Così come più analisi sono necessarie relativamente all’attività sismica e deformativa del vulcano sommerso. Tale valutazione è, in termini di stima della pericolosità potenziale da tsunami, scientificamente importante, eticamente doverosa e politicamente essenziale. Si potrebbe pensare che i cataloghi sismici storici, quegli “oggetti” in cui vengono raccolte e catalogate, sotto forma di stringhe (record) di parametri, le informazioni relative ai terremoti avvenuti nel passato, siano un qualcosa di congelato, cristallizzato e impacchettato. Un oggetto che, una volta compilato e pubblicato, è da considerarsi chiuso, acquisito, in qualche modo definitivo e da biblioteca. Le cose però non stanno proprio in questi termini. Un catalogo storico è lo specchio che riflette le migliori conoscenze acquisite e aggiornate fino a un dato momento. In altre parole, riflette il cosiddetto stato dell’arte al momento della sua compilazione. La ricerca storica, però, è qualcosa di dinamico, in continuo divenire, e per questo i cataloghi storici necessitano di periodici aggiornamenti che permettano di includere gli eventuali nuovi studi nel frattempo prodotti. Dati e parametri contenuti nei cataloghi sismici possono essere soggetti a modifiche e integrazioni a seguito di successive e più approfondite ricerche. Lo stesso catalogo sismico si arricchisce man mano che la ricerca storica scopre terremoti del tutto sconosciuti alla tradizione sismologica (le compilazioni descrittive di terremoti del passato prodotte in Italia fin dal XV secolo e che formano il background dei cataloghi recenti) oppure accerta la maggiore significatività di eventi che erano stati in qualche modo sottovalutati da studi e cataloghi precedenti. Neanche i terremoti già studiati e noti da tempo sono del tutto immuni da possibili, successive modifiche e integrazioni. Può capitare infatti che, a seguito di ulteriori ricerche mirate, o perfino in modo del tutto casuale e fortuito nel corso di ricerche di altro tipo, si scoprano nuove informazioni su un evento già noto e da tempo presente nel catalogo. E queste nuove informazioni, una volta portate alla luce, possono cambiare, a volte anche in modo radical, le preesistenti conoscenze del quadro degli effetti di quell’evento, ridimensionandone oppure rivalutandone i parametri che fino a quel momento lo avevano caratterizzato in catalogo. Esemplare è il caso del terremoto toscano del 13 Aprile 1558, noto fin dal Settecento ma conosciuto, fino al 2004, come un “piccolo” evento di area senese. Solo da una decina di anni è stato rivalutato come un terremoto ben più importante e rilocalizzato tra le colline del Chianti e il Valdarno superiore. Un caso analogo, forse meno clamoroso ma altrettanto rilevante, è rappresentato da un terremoto distruttivo avvenuto nel Gargano attorno alla metà del XVII Secolo. L’area della Puglia settentrionale, e in particolar modo il settore del Gargano, sono caratterizzati da una sismicità che si può definire relativamente moderata, con eventi abbastanza frequenti ma per lo più di energia medio-bassa. La versione corrente del Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani complessivamente elenca poco più di venti terremoti con magnitudo momento eguale e superiore a 5, avvenuti in questo settore della Puglia tra l’anno 1000 e il 2006, più numerosi altri con magnitudo minore. La gran parte di questi terremoti ha una magnitudo momento strumentale o equivalente, calcolata sulla base della distribuzione degli effetti macrosismici per il periodo storico pre-strumentale, inferiore a grado sesto. Da un punto di vista sismologico, si tratta di eventi di moderata entità. Fino al 2008 le uniche eccezioni erano rappresentate da due terremoti avvenuti nel corso del XVII Secolo, negli anni 1627 e 1646, entrambi con magnitudo maggiore di 6. Quello del 30 Luglio 1627, i cui effetti furono particolarmente distruttivi nella zona di Lesina e San Severo, è l’evento storicamente più famoso della Capitanata, il nome storico di quel settore della Puglia che corrisponde all’attuale provincia di Foggia. A tutt’oggi ne è anche il più forte, con una magnitudo momento 6.7 e un’intensità epicentrale 10 MCS. Il terremoto del 31 Maggio 1646, la cui l’area epicentrale risultava situata immediatamente ad est di quello del 1627, nel cuore del promontorio garganico, era conosciuto come un evento importante ma decisamente più piccolo. La sua esistenza era nota alla tradizione sismologica italiana fin dal Seicento. Agli inizi del Novecento, Mario Baratta, nella sua famosa compilazione “I terremoti d’Italia” (Baratta, 1901) sottolinea la natura “garganica” dell’evento (“ha colpito la intera penisola Garganica e specialmente riuscì rovinoso nella parte orientale”) e cita, tra le altre fonti, anche un passaggio della “Cronologia de’ vescovi et arcivescovi Sipontini” di Pompeo Sarnelli (1680) in cui quel terremoto veniva descritto. Sulla base delle conoscenze e degli studi storici disponibili fino al 2008, gli effetti dell’evento del 31 Maggio 1646 erano noti solo in una decina di località, tutte concentrate nell’area del promontorio garganico. Per altre otto località si sapeva che il terremoto era stato avvertito ma le informazioni erano troppo generiche o insufficienti per poter essere convertite in una stima puntuale di intensità macrosismica. In base a quei dati, nel catalogo CPTI04 la scossa era parametrizzata con una stima di magnitudo 6.2, molto simile a quella dell’evento che ha colpito L’Aquila il 6 Aprile 2009 alle 3:32 del mattino. In altre parole, la sua energia era stata stimata circa 6-7 volte inferiore a quella del terremoto del 30 Luglio 1627. A tanto, infatti, corrisponde una differenza di 0.5 in magnitudo momento. Solo in anni recenti, nel corso di un’estesa e sistematica indagine su fonti giornalistiche sei-settecentesche, sono state trovate nuove e preziose informazioni sul terremoto del 1646 (Camassi et al., 2008). Queste principalmente sono contenute in corrispondenze diplomatiche e avvisi manoscritti, individuati negli Archivi di Stato di Modena e Firenze, e nell’Archivio Segreto Vaticano. Gli archivi degli antichi Stati Italiani sono estremamente importanti per la ricerca storica, in quanto rappresentano il punto di raccolta di una ricca documentazione prodotta da un’intensa attività diplomatica che aveva come attori una fitta rete di funzionari, ecclesiastici, ambasciatori e compilatori di avvisi, tutti impegnati in diverso modo a raccogliere e diffondere informazioni, cioè le “notizie”. È proprio in quel periodo che esplode il fenomeno giornalistico con la nascita, nella metà del ‘600, delle prime gazzette a stampa. Le dinamiche della comunicazione seicentesca vedono intrecciarsi in modo strettissimo funzioni diplomatiche, giornalismo segreto degli avvisi manoscritti destinati a diventare un prodotto elitario nel corso del tempo, giornalismo commerciale delle gazzette a stampa e dei pamphlet, diaristica privata che attinge spesso ai medesimi canali di comunicazione. La Capitanata, come le altre province della Puglia, con la Terra di Bari e la Terra d’Otranto, e tutta l’Italia meridionale, faceva parte del Regno di Napoli che all’epoca era sotto il dominio della corona spagnola retta dal re Filippo IV (1621-1665) il quale vi aveva istituito un Vicereame. A Napoli, capitale del Regno, risiedevano numerosi consoli, ambasciatori e altri diplomatici di vari stati italiani ed europei. Le prime notizie sul terremoto riguardano proprio l’avvertimento della scossa nella capitale partenopea: secondo numerose testimonianze napoletane coeve, il terremoto fu avvertito il 31 Maggio alle ore 2 GMT, “verso le sette hore di notte” secondo l’orario all’italiana in vigore all’epoca. A Napoli la scossa fu percepita come lunghissima, “due Miserere”, “tre credi”, secondo l’usanza di adoperare le preghiere cristiane come unità di misura temporale. Una fonte coeva parla di tre scosse distinte avvertite nello spazio di un quarto d’ora (Nuova Relatione, 1646). Il 5 Giugno gli ambasciatori a Napoli, fra cui il Nunzio Apostolico, cardinale Altieri, e il console del Granducato di Toscana, cominciano a spedire ai loro sovrani i dispacci con notizie di gravi danni e molte vittime in Puglia. Il quadro degli effetti si precisa con gli avvisi e dispacci dei giorni seguenti. Il 9 Giugno il Nunzio Apostolico scrive a Roma: “[il terremoto ha] fatto cadere in più di 20 luochi molte Case, Campanili, e grosse Muraglie di fortezza con morte di mille Persone”. Il 19 Giugno il console fiorentino scrive: “quasi tutte le case, che non erano cadute, la maggior parte erano rimaste inhabitabili, et il danno fatto da d[etto] terremoto si và ogni dì più scoprendo maggiore tanto nella mortalità delli habitanti come delle case”. Questo tipo di documentazione, coeva all’evento ma prodotta non in area locale, pugliese, e conservata in archivi anche molto distanti dalla zona interessata dai danni, si è rivelata estremamente utile e preziosa ai ricercatori Ingv per ricavare nuove informazioni, mai considerate prima, sugli effetti causati dal terremoto garganico del 1646. Le nuove evidenze storiche hanno permesso non solo di riverificare i dati per alcune località già note, ma soprattutto di ottenere notizie sui danni e gli effetti in una ventina di centri non individuati dagli studi precedenti, portando complessivamente a una trentina le località individuate alle quali è stato possibile assegnare una stima di intensità macrosismica (Camassi et al., 2008). Il quadro che ne emerge è quello di un grande terremoto che causò danni gravissimi non solo nei paesi del promontorio garganico ma in un’area molto più vasta, estesa da Vieste a Foggia e al Subappennino Dauno (Troia, Bovino, Ascoli Satriano), da Serracapriola, al confine col Molise, e dalle isole Tremiti fino a Canosa di Puglia, sull’altopiano delle Murge. Le fonti coeve concordano sul fatto che i centri più gravemente danneggiati furono quelli sul promontorio garganico, che subirono tutti distruzioni più o meno estese. Vieste viene descritta “rovinata affatto […] con la morte d’infinite persone, delle quali non si sà il numero, per esser rimasti sotto le pietre” (Nuova Relatione, 1646). Secondo una memoria coeva, il terremoto fece crollare il Castello, la Torre dello scoglio “e quasi tutta la Città di Vieste” ma non il convento dei Cappuccini, posto fuori dall’abitato, dove trovarono rifugio i superstiti. Ischitella viene citata tra le località “rovinate e atterrate”. Secondo i notai Cardassi “non vi è rimasto altro che trenta persone e tutte stroppiati”. Le testimonianze coeve concordano nell’attribuire a Vico del Gargano danni gravissimi e oltre 150 vittime. Il crollo del Convento dei Cappuccini è menzionato dalla Nuova Relatione (1646) e confermato da alcuni memorialisti cappuccini, mentre Sarnelli (1680) parla di un centinaio di case crollate e solo 40 morti. Rodi Garganico fu “affatto spianata, con grandissima mortalità degli habitanti d’essa, de’ quali non si può saper’ il numero certo, per esser luogo assai popolato; ma alcuni di quelli, che sono restati, dicono sia il numero di trecento circa, ma Vico e Rodi bisogna ergerli di nuovo dalli fondamenti” (Nuova Relatione, 1646). Risulta degno di nota il caso di Canosa di Puglia: la città è situata a considerevole distanza, oltre 60 Km, dal promontorio del Gargano, area dei massimi effetti, e tuttavia diverse fonti coeve concordano nel descriverla tra i centri maggiormente devastate. Secondo la Nuova Relatione (1646) a Canosa “cadero nel medesimo tempo da cento cinquanta Case, & il castello fù rovinato, e spiantato affatto, che non si scorge altro”. Una lettera dell’ambasciatore fiorentino a Napoli descrive Canosa come “tutta spianata”. Manfredonia, Monte Sant’Angelo, Peschici, Rignano Garganico, San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis, Sannicandro Garganico e l’insediamento fortificato di Torre Fortore furono “rovinate più della metà”, secondo avvisi e corrispondenze molto vicini all’evento. Verso l’Appennino i danni furono altrettanto gravi a Torremaggiore, più modesti ad Apricena e San Severo. Nella Capitanata meridionale ci furono danni gravissimi a Troia e Serracapriola, danni più modesti ma comunque gravi a Bovino e Ascoli Satriano. A Foggia fu gravemente lesionato il Convento dei Cappuccini e “rovinarono sei Case, ma solamente con la morte di due persone”. Secondo un avviso del 16 Giugno i danni raggiunsero anche le isole Tremiti. Il terremoto fu avvertito fortemente ma senza danni a Napoli, dove causò panico, e a Bari, e distintamente nell’area di Montecassino (Camassi et al., 2008). Non sono note scosse avvenute nei giorni e nelle ore precedenti, mentre alcune testimonianze coeve menzionano l’avvertimento di diverse scosse dopo l’evento principale. In particolare, una corrispondenza napoletana del 19 Giugno riferisce che i terremoti “di quando in quando s’andavano sentendo”, e che per questo “molte persone dormivano in Campagna sotto baracche”. Alcune fonti dell’epoca descrivono anche effetti ambientali prodotti dalla scossa principale. Secondo Sarnelli (1680) “gli Orti di Carpino si trovarono pieni delle conchiglie del lago”, possibile riferimento ad un effetto di tracimazione del vicino Lago di Varano, a causa di un’onda anomala. Un’insolita agitazione del mare (“strepito”) fu notata dai pescatori, anche sulle navi più grandi. Un cupo presagio per i laghi naturali ma anche per i bacini idroelettrici che possono indurre catastrofi sismiche o subire gli effetti del passaggio delle onde di un terremoto distruttivo, producendo tsunami. L’insieme di questi scarsi elementi, tuttavia, non è sufficiente a definire l’accadimento di un maremoto, che come tale infatti non risulta inserito nel recente Catalogo degli Tsunami Euro-Mediterranei EMTC. Alcune profonde spaccature nel terreno furono osservate nelle zone di Ischitella e di San Giovanni Rotondo. A Rodi Garganico fu vista fuoruscire tutta l’acqua dalle cisterne. La distribuzione degli effetti di danneggiamento causati dal terremoto del 31 Maggio 1646 nella sua porzione più occidentale, va a sovrapporsi all’area maggiormente danneggiata dall’evento del 30 Luglio 1627. Alcune località che erano state quasi completamente rase al suolo dal primo terremoto, diciannove anni più tardi subirono nuovi gravissimi danni (Serracapriola, Torremaggiore) o danni più contenuti ma comunque rilevanti (San Severo, Apricena). Altre ancora, che già nel 1627 avevano riportati gravissimi danni e numerosi crolli, col secondo terremoto di una ventina di anni dopo furono quasi completamente distrutte (Sannicandro Garganico, San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis, Rignano Garganico, Canosa di Puglia). Ci furono località che subirono un quadro di danneggiamento simile in entrambi i terremoti (Foggia, Ascoli Satriano, Bovino). Per quanto affidabili e coerenti possano essere, nelle fonti coeve disponibili, le descrizioni dei gravi danni provocati dal terremoto 1646, si potrebbe sostenere che tali danni siano da imputarsi, almeno in parte, alla maggiore vulnerabilità degli edifici che erano già stati duramente colpiti da un terremoto molto forte appena 19 anni prima. Su questo aspetto, tuttavia, gli studi più recenti e aggiornati sull’evento del 1627 (Boschi et al., 2007) fanno notare che, secondo le fonti storiche, la ricostruzione, anche grazie ad una favorevole congiuntura economica, fu piuttosto veloce ed efficacemente completata nell’arco di una decina di anni. Almeno per quanto riguarda quasi tutta l’edilizia privata e anche una buona parte di quella ecclesiastica. La nostra L’Aquila 2015 quanto tempo dovrà attendere, dal sisma dell’Anno Domini 2009, per una ricostruzione solida, efficace e sicura? Se si prende per buono il fatto che ad una ventina di anni dalla catastrofe del 1627, quando la terra tornò a tremare fortemente nell’area della Capitanata e del Gargano, la gran parte degli edifici fosse stata nel frattempo ricostruita, si può ragionevolmente ipotizzare che il grave quadro del danneggiamento causato dal terremoto del 1646 fu dovuto interamente o quasi alla violenza del terremoto stesso e alla vulnerabilità degli edifici ricostruiti dopo il 1627. In altre parole, i dati di intensità stimati per l’evento del 1646 non sarebbero viziati da possibili effetti di cumulo con le intensità del terremoto di 19 anni prima. Grazie alla revisione storica condotta nel 2008, e alla nuova distribuzione di dati macrosismici così ottenuta, i parametri del terremoto garganico del 31 Maggio 1646 sono stati fortemente rivalutati dall’Ingv e come tali compaiono nell’ultima versione del catalogo CPTI11 aggiornata al 2006. In particolare, con una stima di magnitudo momento 6.6, questo evento diventa, allo stato attuale delle conoscenze, uno dei terremoti più forti e importanti non solo dell’area garganica, al pari di quello del 1627 (Mw 6.7), ma anche dell’intera storia sismica dell’Italia meridionale. L’intensa attività sismica nel Gargano e nella Capitanata non si concluse con i terremoti del 1627 e del 1646. Forti eventi sismici interessarono tutta quest’area anche nei decenni successivi. La stessa ricerca storica che ha permesso di rivalutare completamente quell’evento, ha portato anche a scoprire o a rivalutare altri tre eventi significativi che, dopo il 1646, nel giro di poco più di 40 anni (1647, 1657 e 1688) colpirono a più riprese il Gargano e che fino a quel momento erano stati in parte dimenticati, sottovalutati o addirittura risultavano del tutto sconosciuti (Camassi et al., 2008). Gli epicentri di questi eventi parlano chiaro. È importante notare come la sequenza di forti eventi che dal 1627 e per oltre 60 anni interessò questo settore della Puglia, nei tre secoli successivi non si sia più ripetuta, almeno fino ad oggi e con quelle caratteristiche. Gli epicentri macrosismici dei terremoti del 1646, 1647, 1657 e 1688 mostrano un allineamento e una successione temporale da est a ovest, che secondo lo studio di Camassi et al. (2008) sarebbe riconducibile a diverse sorgenti sismogenetiche attivate in sequenza, probabilmente come conseguenza della grossa quantità di energia liberata dal terremoto del 1627 che ha perturbato fortemente l’intero settore. Queste sequenze che migrano in una direzione sono frequenti nella storia sismica dell’Italia (come negli eventi del 1783 in Calabria centro-meridionale) e la loro comprensione sembra di grande utilità per migliorare la valutazione della pericolosità sismica sia a lungo termine sia a breve termine. Per la riduzione della vulnerabilità degli edifici esistenti o per la progettazione di nuovi, sapere che una struttura può subire forti scuotimenti ravvicinati cambia la prospettiva di intervento e le aspettative di vita. È questo il senso della Storia. In ricordo del violento terremoto che 120 anni fa colpì Firenze e i paesi vicini, Lunedì 18 Maggio, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e la Fondazione Osservatorio Ximeniano (FOX) hanno organizzano, nella Sala Luca Giordano del Palazzo Medici-Riccardi a Firenze, una serie di interventi scientifico-divulgativi sulla sismicità dell’area fiorentina e su come difendersi dai relativi effetti, evidenziando anche certezze e incertezze della sismologia di 120 anni dopo. Il 18 Maggio 1895 alle ore 20:55 un terremoto, con intensità epicentrale pari al grado VIII della scala Mercalli-Cancani-Sieberg e magnitudo 5.4, causò gravissimi danni su un’area a una decina di chilometri a sud di Firenze. Crolli si ebbero a Sant’Andrea in Percussina, l’Impruneta, Bagno a Ripoli, Tavarnuzze, Impruneta, Croce a Varliano, Osteria Nuova, Pozzolatico e ai Falciani. Nella Certosa del Galluzzo crollò l’intero lato nord-occidentale del Chiostro Grande, distruggendo preziose opere Robbiane. Anche il patrimonio storico-monumentale e artistico di Firenze fu gravemente offeso. La comunità sismologica di allora, di cui l’Osservatorio Ximeniano di Firenze rappresentava un’eccellenza, cercò di comprendere e interpretare l’evento per dare risposte alla popolazione. Dall’energia dei vulcani e dei terremoti alla fertilità, unicità delle eccellenze italiane. L’Ingv chiude l’Anno dedicato a Giuseppe Mercalli, a Milano, nell’ambito delle manifestazioni Expo2015, con un seminario rivolto a ricercatori e giornalisti, Mercoledì 20 Maggio, in collaborazione con l’Ordine nazionale dei giornalisti (Odg). La città dell’Esposizione Universale, luogo di nascita del grande scienziato, chiude un percorso di informazione e divulgazione iniziato a Napoli in coincidenza del centenario dalla sua scomparsa. Insigne sismologo, vulcanologo ed educatore, conosciuto in tutto il mondo per aver legato il suo nome alla Scala per la misura dell’Intensità dei terremoti, fino alla sua morte nel 1914, dedica tutta la vita allo studio degli eventi sismici e vulcanici e allo sviluppo di una Cultura della Prevenzione non ancora assimilata dagli Italiani. “Scienziato ed educatore brillante dagli innumerevoli interessi culturali – ricorda Stefano Gresta, Presidente dell’Ingv – Giuseppe Mercalli ebbe sempre chiaro un obiettivo: lo studio dei fenomeni naturali estremi alla base della salvaguardia delle popolazioni a rischio. In questo senso fu un precursore dei concetti più moderni di prevenzione sismica”. Oltre agli studi in sismologia, altrettanto importante per i risultati ottenuti fu la figura di Giuseppe Mercalli come vulcanologo con la sua vasta produzione di studi sui vulcani italiani. E proprio sul tema “Nutrire il Pianeta – Energia della vita” dell’Expo 2015, che da Milano si allarga a tutta l’Italia fatta di eccellenze, di secoli di tradizioni e di cultura, che l’Ingv ha voluto inserire l’evento all’interno delle manifestazioni previste per l’Esposizione Universale. “Passa dai vulcani il concetto di energia che – osserva Stefano Gresta – tradotto nei millenni di attività di queste maestose manifestazioni naturali, si traduce in fertilità, unicità e impossibilità di essere imitati in altre parti del mondo. Se poi tale unicità si incrocia con un percorso storico e culturale che attraversa i millenni, si comprende come energia, geologia, vulcanismo e sviluppo siano la cornice di quelle aree del nostro Paese vicine ai 10 vulcani attivi in Italia. Una cultura fatta di energia, la stessa che i vulcani hanno trasmesso alle caratteristiche organolettiche dei territori che li circondano, rendendoli dei laboratori unici sia per le produzioni agroalimentari sia per gli scienziati che ne studiano ogni microscopica variazione”. L’Anno dedicato a Giuseppe Mercalli ha visto anche l’emissione del francobollo commemorativo in suo onore. “INGVnewsletter, dopo un periodo di lavori torna con un’innovativa formula editoriale – rivela Stefano Gresta – dalla riorganizzazione delle news, alla reimpostazione grafica di grande impatto visivo, fino all’uso rinnovato delle immagini e la valorizzazione dei video. Consultabile anche su tablet e smartphone, questo numero si apre con un focus sulla figura di Giuseppe Mercalli. Salvo Foti, enologo etneo, ci porta alla scoperta dell’Etna partendo dai racconti mitologici per arrivare alla produzione del nettare degli Dei, fino alla profonda interazione tra il vulcano e le tecniche di vitivinicoltura. Tra gli argomenti trattati, anche gli studi sugli effetti del terremoto sul territorio e la ricerca di possibili inquinanti nel terreno attraverso metodologie proprie della geofisica applicata. A seguire un’intervista al Grande regista Ugo Gregoretti e all’attore Paolo Briguglia sull’episodio del film “Scossa”, il primo reportage giornalistico sul disastroso Terremoto di Messina del 1908. Sabato 23 Maggio 2015, in occasione dell’inaugurazione del nuovo percorso museale della sede storica dell’Osservatorio Vesuviano e del riconoscimento di sito con rilevanza internazionale per la Fisica dall’European Physical Society (EPS), è uscito un numero speciale.
Buona lettura”. Il primo Osservatorio vulcanologico al mondo, il Reale Osservatorio Vesuviano, riapre le porte al pubblico, dopo un periodo di restauro, e inaugura la nuova struttura museale. L’inserimento tra i luoghi storici della Fisica Internazionale da parte dell’European Physical Society è un riconoscimento prestigioso per una pietra miliare della Storia della Fisica e della Vulcanologia italiane. Fondato 174 anni fa da Re Ferdinando II di Borbone per studiare l’attività del vulcano in modo continuo e inaugurato esattamente 170 anni fa nel 1845 con il prestigioso Congresso degli Scienziati a Napoli, il primo Osservatorio vulcanologico del mondo, situato a 608 metri di quota tra Ercolano e Torre del Greco, nel Comune di Ercolano, nel 2001 diventa parte integrante della sezione di Napoli dell’Ingv. Lettere, telegrammi, taccuini di campagna, strumentazioni e attrezzature che venivano utilizzate per studiare i vulcani, spesso ideate e fatte realizzare dagli scienziati che lavoravano all’Osservatorio, come Melloni, Palmieri, sono solo alcune delle collezioni uniche al mondo che vengono esposte nel nuovo percorso museale. “L’attività che vi si svolge sarà, ovviamente, centrata sull’Osservatorio, sulla sua attività, sul suo patrimonio tecnico, scientifico e culturale – osserva Giuseppe De Natale, Direttore dell’Osservatorio Vesuviano Ingv – anche se non mancherà una grande apertura verso nuove iniziative scientifiche e culturali a carattere temporaneo”. Il recupero delle numerose collezioni storiche e documentarie dell’Osservatorio, razionalizzato e integrato nei percorsi espositivi, ha permesso di arricchire l’offerta didattica con oggetti e documenti fortemente legati alla storia dell’Osservatorio Vesuviano e alla sua attività. “Ne sono esempi le collezioni di medaglie di lava, le guaches raffiguranti scene vesuviane appena restaurate, gli strumenti di misura – prosegue De Natale – ma anche la ricca documentazione storica e iconografica, che saranno in parte esposti e resi fruibili in formato digitale”. Tra le novità degli allestimenti temporanei, le opere degli Allievi delle Accademie d’Arte di Karlsruhe e New York, e delle facoltà di Architettura dell’ETH di Zurigo e dell’Università di Amburgo, ispirati da una visita al territorio vesuviano e all’Osservatorio dello scorso inverno. “È una giornata importante per l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, da sempre attento alla diffusione della cultura scientifica nell’ambito delle Scienze della Terra, utilizzando come forte attrattore i vulcani e i fenomeni connessi con la loro attività – dichiara Stefano Gresta – l’apertura del nuovo allestimento espositivo porta non solo un ampliamento della fruibilità dei patrimonio storico-scientifico dell’Osservatorio Vesuviano, ma anche un arricchimento e diversificazione dell’offerta turistico-culturale”. Tra le iniziative, l’inaugurazione del busto bronzeo di Giuseppe Imbò, pioniere della ricerca geofisica in Italia e Direttore dell’Osservatorio Vesuviano dal 1935 al 1970. “Campi Flegrei Deep Drilling Project” è il Progetto Ingv per la ricerca e il monitoraggio nell’area vulcanica napoletana. Il lavoro CFDDP, oltre a fornire importanti e innovativi risultati scientifici sulla storia ed evoluzione della caldera flegrea e sui meccanismi che generano i fenomeni di bradisisma, ha permesso di realizzare il primo nucleo di un Osservatorio Vulcanologico Profondo (Campi Flegrei Deep Observatory, ossia CFDO) che è poi stato ampliato considerevolmente nell’ambito di successivi progetti infrastrutturali ed esteso anche alle altre aree. Come risultato, l’OV-Ingv vanta ora una rete di monitoraggio tecnologicamente avanzata di strumentazione in pozzo. Questa nuova struttura di ricerca, unita al potenziamento delle reti di monitoraggio di superficie, consente di rilevare anche i più piccoli fenomeni sismici e vulcanici nell’area vulcanica napoletana con estrema precisione, finora impossibile, facendo delle italiche aree vulcaniche le più monitorate al Mondo.
I coordinatori del Progetto internazionale, entrambi dell’Ingv, sono Claudia Troise, Giuseppe De Natale, e i ricercatori coinvolti. Individuate a Pozzuoli nuove fumarole marine e studiati in dettaglio resti archeologici sommersi grazie a una mappa dettagliata del fondale, recentemente pubblicata su “Journal of Maps”. Lo studio, coordinato dall’Ingv-Osservatorio Vesuviano, in collaborazione con il Cnr, rientra nel Progetto “Monica”. Muri romani, antichi basolati e reperti di duemila anni fa, tra emanazioni di gas vulcanici. Non è Moria nella Terra di Mezzo. È il paesaggio sottomarino delle acque della baia di Pozzuoli, a nord di Napoli, evidenziato da una mappa batimetrica ad alta risoluzione, sviluppata dall’Osservatorio Vesuviano dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, in collaborazione con l’Istituto per l’ambiente marino costiero (Iamc) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Napoli, nell’ambito del Progetto Monica per il “Monitoraggio innovativo delle coste e dell’ambiente marino”. Lo studio “High-resolution morpho-bathymetry of Pozzuoli Bay, southern Italy”, finanziato dal Miur, ha esplorato le strutture portuali, i complessi residenziali e termali di età romana, come il Portus Iulius e la Villa dei Pisoni, sommersi dal mare a causa dei movimenti verticali del suolo, all’interno di un contesto ricco di emissioni fumaroliche per la natura vulcanica del territorio nella Megacaldera del Golfo di Napoli che non ha proprio nulla da invidiare a quella nel Parco Nazionale di Yellowstone (Usa). Il team di ricercatori partenopei ha ricostruito la morfologia dell’area marina individuando, mediante ecoscandaglio “multibeam”, la presenza e la posizione di strutture archeologiche fino a circa 15 metri di profondità. “Ma c’è di più – rivela Renato Somma, ricercatore dell’Ov-Ingv – sono state scoperte aree finora sconosciute di emissione di gas vulcanici, e individuati terrazzi marini a varie profondità. Il rilievo batimetrico ha dato un’immagine senza precedenti della morfologia del fondale marino della baia di Pozzuoli e rappresenta un contributo alla comprensione dell’evoluzione della Caldera dei Campi Flegrei, un’area vulcanica attiva ad alto rischio, abitata da quasi un milione di persone”. La mappa, prodotta a scala 1:10000, rappresenta anche un importante strumento per la definizione di scenari multirischio e per il controllo dell’evoluzione delle aree costiere. “La baia di Pozzuoli – spiega Giuseppe De Natale – costituisce la parte centrale della Caldera dei Campi Flegrei, un’ampia struttura vulcanotettonica che si è formata in seguito alle eruzioni vulcaniche dell’Ignimbrite Campana (la maggiore eruzione esplosiva avvenuta nell’area campana 39mila anni fa) e del Tufo Giallo Napoletano (la seconda eruzione per importanza nell’area campana, di 15mila anni fa)”. Quando non esisteva Napoli. “L’ultima eruzione è avvenuta nel 1538. Nel passato l’area è stata più volte interessata da movimenti del suolo legati alla dinamica vulcanica e recentemente si sono verificati due ulteriori episodi di bradisismo, negli anni 1969-1972 e 1982-1984, che hanno prodotto un sollevamento complessivo del suolo di circa tre metri e mezzo, accompagnati da sciami di terremoti di bassa energia. Negli ultimi dieci anni circa, il movimento del suolo è ripreso e ha prodotto un innalzamento di circa 28 centimetri a oggi”. Il Progetto Monica è finalizzato alla prevenzione e alla gestione delle emergenze ambientali, soprattutto marine e costiere, anche attraverso la realizzazione di un sistema di monitoraggio in fibra ottica, costituito da sensori installati su fondale marino, che andrà a integrare i sistemi già esistenti a terra. “L’obiettivo è costituire un sistema di monitoraggio marino-costiero che, insieme ai sistemi basati a terra – osserva De Natale – sia in grado di controllare fenomeni naturali quali terremoti, eruzioni, movimenti franosi, maremoti e possa essere ulteriormente implementato con sensori capaci di rilevare parametri biologici e di inquinamento marino, nonché fenomeni antropici quali traffico marittimo” ed altre anomalie. Il Modello digitale del terreno dell’area emersa di Pozzuoli (Dtm), prodotto nel corso dello studio, è stato integrato con quello realizzato in precedenti campagne di ricerca e dati relativi all’area costiera dei Campi Flegrei, acquisiti nel 2004 dalla Regione Campania. “Ulteriori rilievi in corso – rileva il Direttore dell’Ov-Ingv – porteranno all’installazione di un cavo sottomarino interrato in fibra ottica, che collegherà alla terraferma alcune stazioni di monitoraggio geofisico collocate sul fondo marino”. Il Campi Flegrei Deep Drilling Project prevede l’esecuzione di due perforazioni; la prima, già esecutiva, si spingerà fino 500 metri di profondità (pozzo pilota); la seconda, ancora in progetto, arriverà fino a 3.5 Km circa. Il pozzo pilota servirà principalmente a studiare in dettaglio la stratigrafia e la storia eruttiva del bordo orientale della Caldera, che è il meno noto per l’assenza di perforazioni precedenti di una certa profondità, ed anche l’area a più alto rischio per l’alta densità di popolazione. In seguito, il pozzo pilota servirà per alloggiare una sorta di Osservatorio Vulcanologico Profondo, con l’installazione di sensori innovativi per monitorare la dinamica del vulcano e gli episodi di bradisisma con una sensibilità molto più alta (di circa 1000 volte) rispetto a quanto ottenibile con la usuale strumentazione di superficie. Partner importante per la realizzazione del pozzo pilota è stata Bagnolifutura Spa, che ha fornito l’area di perforazione oltre al supporto logistico per l’esperimento. Bagnolifutura sarà anche un partner essenziale nel prosieguo del Progetto per permettere la fruizione dei risultati scientifici e dei dati di monitoraggio ai cittadini, attraverso attività divulgative ed informative. Il pozzo profondo servirà invece essenzialmente a studiare i meccanismi di genesi dell’attività vulcanica e del bradisisma, attraverso la misura in loco dei principali parametri meccanici e termofluidodinamici delle rocce profonde flegree. Dalle misure della variazione di temperatura con la profondità nella parte più profonda, si ricaverà con notevole precisione la profondità della camera magmatica. L’obiettivo più generale del Campi Flegrei Deep Drilling Project è quello di porre il rischio vulcanico e le risorse culturali, ambientali ed energetiche dei Campi Flegrei al centro dell’attenzione internazionale, facendo di quest’area un grande laboratorio naturale per lo sviluppo e la sperimentazione di tecnologie di salvaguardia ambientale e sviluppo sostenibile, che includono: mitigazione del rischio vulcanico e dei rischi naturali, sviluppo di tecnologie avanzate per il monitoraggio ambientale, sviluppo di metodologie sostenibili ed eco-compatibili per l’utilizzo ottimale dell’energia geotermica. Le Scienze sperimentali sono tutte collegate. I prossimi 22-23 Ottobre 2015, ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso dell’Infn (Assergi, L’Aquila), i più grandi laboratori sotterranei al Mondo, in cui si realizzano esperimenti di Fisica Astroparticellare, si terrà il simposio dal titolo “Scienza e Tecnologia, un dialogo che continua”. Negli ultimi cinquant’anni la tecnologia ha completamente cambiato la nostra vita in tutti i settori, talmente profondamente che non ci accorgiamo quasi più di quanto sia profonda questa influenza sul nostro quotidiano né di quanto grandi possano essere le sue potenzialità. La tecnologia ha avuto una crescita esponenziale in diversi settori come l’informatica e la robotica dove l’Italia può e deve fare molto di più. Stesso discorso per quanto riguarda la tecnologia applicata alle televisioni, sia a livello tecnico, con schermi che continuano a presentare caratteristiche innovative, una dopo l’altra, sia a livello di servizi offerti agli utenti. Oggi, a livello mondiale oltre il 70 percento delle case dispongono di almeno un apparecchio televisivo, con una percentuale pari a oltre il 90 percento in Nord America, Europa, Australia e Giappone, all’80 percento in Centro e Sud America, al 60 percento in Asia e al 20 percento in Africa dove evidentemente ignorano i guai causati dai Warlords al Mondo. Parimenti, il settore delle telecomunicazioni mobili è “esploso” con la diffusione della telefonia mobile e successivamente degli smartphone e dei tablet. E si ipotizza, pace permettendo, che sia destinato ad una ulteriore crescita esponenziale. Grazie alla Tecnologia, le comunicazioni fra gli umani sono diventate estremamente facili e più frequenti, attraverso l’utilizzo di tecnologie che solo cinquant’anni fa semplicemente esistevano solo in Star Trek. Com’è stato possibile tutto questo? Per merito di chi? Il meeting prende spunto da queste semplici domande per esplorare gli aspetti sinergici del connubio fra Scienza, Genio e Tecnologia, l’intreccio inestricabile tra ricerca scientifica e ricerca tecnologica che stabilisce continuamente nuovi approcci alla realtà con un aumento della conoscenza e della libertà d’impresa. La Scienza non deve più essere un mero insieme di norme e regole astratte, ma l’impegno comunitario di interpretare realtà complesse, basandosi su osservazioni sperimentali e connessioni logiche e pratiche tra di esse. Analogamente, la Tecnologia, oltre ad avere come scopo la realizzazione di qualcosa che funzioni, significa applicare le conoscenze scientifiche più avanzate per gestire, separare, controllare, le variabili che influenzano i fenomeni quantistici che si vogliono addomesticare. Durante il meeting si affronteranno questi temi e si cercherà di analizzare l’influenza che alcune delle tecnologie considerate hanno sul comportamento e sull’evoluzione della società che ne fa uso, affrontando aspetti positivi e negativi. Sarà inoltre possibile visitare i laboratori sotterranei attraverso due visite guidate, il 21 e il 23 Ottobre 2015, prenotandosi con il “form” di registrazione reperibile sul sito dell’evento, specificando a quale delle due visite si intende partecipare e selezionando l’apposito “box”. I Laboratori Nazionali del Gran Sasso (LNGS), uno dei quattro laboratori dell’Infn, sono i più grandi laboratori sotterranei al mondo in cui si realizzano esperimenti di Fisica delle particelle, Astrofisica delle particelle e Astrofisica nucleare. Nel segno del Neutrino. “Per essere un fantasma, è piuttosto ciarliero. Se lo riesci ad afferrare, non smette di parlare e spettegola sull’Universo intero”. Parola della Professoressa Lucia Votano. È il Neutrino, la particella elementare cui la scienziata, già Direttore del Lngs-Infn, dedica un libro, intitolato appunto “Il fantasma dell’Universo”, pubblicato dalla Carocci nella collana ideata in collaborazione con la Città della Scienza di Napoli. L’Autrice è tra le più titolate al Mondo per studiare i Neutrini da fisico, avendo diretto, prima donna in assoluto, il più grande laboratorio sotterraneo dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare realizzato sotto il Gran Sasso, dove lavora uno dei gruppi più attrezzati e di successo nel dialogo con la “particella fantasma”. Il libro che ha scritto registra puntualmente tutte le conoscenze più avanzate sulla Fisica del Neutrino. Già, perché la particella “inafferrabile e ciarliera”, in questi ultimo anni si è ritagliata una fetta piuttosto grossa della torta mediatica planetaria di fisici premi Nobel e di giornalisti scientifici. Tutti a caccia dei segreti dell’Universo per viaggiare tra le altre stelle. Ma il libro, denso e conciso, è scritto con quella leggerezza e rapidità che il grande Italo Calvino considerava i due capisaldi della bella scrittura. Lucia Votano svela così anche le sue doti di divulgatrice scientifica e il libro si legge in pochi “Credo”. Ma non è solo per la piacevolezza (non poca cosa) che se ne consiglia la lettura, alla vigilia della prossima Supernova galattica (attesa da 400 anni) annunciata proprio da una massiccia dose di Neutrini che investiranno la Terra alcune ore prima dell’arrivo dei Fotoni, illuminando d’immenso il Gran Sasso! Ma anche (non è cosa da meno) per la sua intrinseca importanza che è organizzata nelle tre diverse dimensioni della storia: il passato, il presente e il futuro. Il Neutrino, infatti, ha un grande passato. Quasi interamente italiano. Se infatti fu Wolfgang Pauli ad ipotizzarne l’esistenza intorno al 1930, nel tentativo di fornire una spiegazione a quel bizzarro fenomeno della Natura che è la radioattività, è stato poi Enrico Fermi non solo a dargli il nome Neutrino (l’unico nome italiano utilizzato dalla comunità mondiale di fisica delle particelle) ma ad interrogarlo e a fargli raccontare che esiste un’altra Forza fondamentale della Natura, l’Interazione debole, oltre le due già note: la Gravità e l’Elettromagnetismo. Più tardi ne sarà scoperta una quarta, l’Interazione forte. Nessuno lo aveva ancora empiricamente osservato e il “fantasma” già parlava, rivelando misteri arcani. La particella Neutrino non è solo minuscola, ma risente solo dell’Interazione debole ed è indifferente a tutte le altre tre Forze della Natura. Per questo potrebbe attraversare mura spesse quanto l’intero Sistema Solare senza essere fermato. Dopo Fermi è stato un altro italiano, Bruno Pontecorvo, l’uomo che più di ogni altro ha fatto la Storia del Neutrino. Perché è stato il “cucciolo” di via Panisperna a indicare la trappola migliore per catturare il “fantasma”, a sostenere che ne esistono di diversi tipi (tre), a sostenere che i Neutrini per quanto minuscoli hanno una massa, a sostenere che i Neutrini oscillano ovvero si trasformano gli uni negli altri. Le due ultime ipotesi di Pontecorvo hanno avuto una definitiva verifica sperimentale grazie all’esperimento Opera, condotto tra il Cern di Ginevra e il Laboratorio Nazionale Gran Sasso, senza tunnel artificiali! È, dunque, proprio vero che il Neutrino parla italiano e svela la natura di molti cuori. Proprio gli esperimenti al Laboratorio Nazionale del Gran Sasso, diretto da Lucia Votano, hanno dimostrato che il Neutrino ha non solo un grande passato ma anche un presente non meno importante. Il gruppo Opera ha fornito la definitiva conferma che il Neutrino ha una massa. Il che implica un problema teorico non da poco. Il Modello Standard della Fisica delle Alte Energie, il Quadro teorico completato con la scoperta nel 2012 del Bosone di Higgs al Cern di Ginevra, prevede che il Neutrino “non abbia” massa. E, dunque, la particella non del tutto “fantasma” parla ancora e ci dice che bisogna “andare oltre il Modello Standard”, oltre le Dimensioni visibili. Elaborare, cioè, un Quadro teorico più generale che includa l’Invisibile, ossia il 95 percento dell’Universo. Nel fare questo il Neutrino racconta, come Lucia Votano puntualmente rivela, cose che nessun altro sa su come sono fatti l’Universo bambino, il Sole e le altre stelle, la nostra atmosfera, l’interno del pianeta Terra. Tutte fonti diverse della “particella fantasma e ubiqua”. E questo solo per parlare delle fonti naturali, perché i fisici riescono a produrre in proprio i Neutrini, mediante fonti artificiali sparse per il Mondo intero nei reattori nucleari e negli acceleratori di particelle. Perché quella del Neutrino è una Fisica molto frequentata che un giorno, forse, ci farà dialogare con ET. Che sia molto frequentata lo dimostra il fatto che il Neutrino avrà, quasi certamente, un futuro degno del suo presente e del suo passato. Un futuro scientifico, in cui dovrà aiutarci a svelare altri miseri ancora irrisolti della Fisica. Ma anche un futuro tecnologico per le comunicazioni e la produzione di energia termonucleare pulita. Lucia Votano adombra l’idea che il prossimo e avveniristico sistema di trasmissione dell’informazione potrebbe essere basato proprio sul Neutrino, come in Star Trek. È probabile che dopo l’elettronica e dopo la fotonica avremo la “neutrinica”. Il vantaggio risulta evidente anche in Medicina. L’elettronica si fonda sull’elettrone, particella che ha alcuni limiti fisici riscaldando i circuiti: è pesante ed elettricamente carico ovvero “sente” l’Interazione elettromagnetica; il fotone, cui si affida la fotonica, è privo di massa ed elettricamente neutro, ma è la “particella messaggero” dell’Interazione elettromagnetica; il Neutrino ha una massa piccolissima, non solo è elettricamente neutro, ma non “sente” l’Interazione elettromagnetica. Per questo motivo i geni, gli inventori e i tecnologi gongolano, perché sognano una nuova “era neutrinica” in cui le informazioni potranno essere rivelate e trasmesse praticamente senza interferenze. L’impresa riuscirà solo quando troveremo il giusto “sensore” acchiappa-fantasmi neutrinico, magari grazie al Tricorder. E allora l’inafferrabile e trasformistico Neutrino diventerà davvero la particella più ciarliera dell’Universo. Anche per studiare i terremoti.